Sarebbe un errore sottovalutare le implicazioni politiche della gravissima crisi istituzionale che viviamo. Di una, in particolare, vi sono chiari segni: stanno tornando a suonare le loro trombe i nostalgici della riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre 2016. E i fautori di sistemi elettorali fondati su un premio di maggioranza. E allora è bene essere netti: lo stallo politico che stiamo vivendo non nasce dal «ritorno al proporzionale», ma dai guasti prodotti dalla cattiva retorica del maggioritario con cui è stata contrabbandata la cosiddetta legge Rosato (cosiddetta, perché sembra che nessuno se ne voglia, oramai, assumere la paternità!).

Premessa: un sistema elettorale non è solo un meccanismo per trasformare i voti in seggi; è un insieme di regole che condiziona fortemente anche i modi con cui i partiti si rivolgono agli elettori. Ebbene, nel caso del Rosatellum, i principali attori, ma anche i mass media, hanno trasmesso agli elettori un messaggio profondamente distorto, giocando sulla natura ambigua del sistema elettorale: venduto, nel dibattito pubblico, come un maggioritario da cui sarebbe emerso un «vincitore», ma in realtà un’accozzaglia di logiche competitive diverse, un monstrum che è sfuggito di mano agli improvvidi «riformatori». Questa deformazione ha prodotto, dapprima, una campagna elettorale muscolare, fondata su un «tutti contro tutti» che ha irrigidito e cristallizzato gli schieramenti; e imperniata sulla finzione di «capi politici» spacciati come candidati «premier» divenuti vessilli non negoziabili. E ha prodotto ora un’impasse: chi ha «vinto» veramente? Una coalizione o un partito? Ed è possibile dedurre dall’esito del voto una qualche univoca volontà popolare? Si assiste così all’apoteosi di un purissimo stilema populista (in questo caso, si può usare il termine a ragion veduta): parti che si auto-proclamano come interpreti autentiche del Tutto; minoranze che rivendicano un infondato diritto a governare in nome dei «cittadini» o degli «italiani» (mentre altri, i «vinti», si auto-confinano alla opposizione di un governo che non c’è…).
Una gigantesca mistificazione, di fronte alla quale è opportuno ricordare il caso del Portogallo (elezioni politiche del 4 ottobre 2015, sistema proporzionale con formula D’Hondt): il primo partito è quello di centrodestra (38,6% dei voti), seguito dai socialisti (32,3%) e da altri due partiti di sinistra (rispettivamente, con il 10,2% e l’8,3%). Ebbene, come è noto, in Portogallo governa una coalizione di sinistra, tra chi è arrivato secondo, terzo e quarto.

Di fronte a tutto ciò, pensare di risolvere lo stallo tornando a ipotizzare premi di maggioranza o ballottaggi è semplicemente insensato: significherebbe essere preda di un’insana coazione a ripetere.
Non è su questa via che si può pensare di risolvere la grave crisi della democrazia italiana. Bisogna avere il coraggio di motivare e difendere un vero ritorno al proporzionale, e soprattutto raccontarlo come tale agli elettori.
Lungi dall’essere una sciagura, il ritorno ad una coerente visione proporzionale – senza gli inutili e barocchi mascheramenti del Rosatellum – può rappresentare il solo terreno su cui almeno provare a invertire un radicale processo di delegittimazione delle istituzioni democratiche.

Un sistema proporzionale semplice e normale, con una soglia al 3 o al 4 per cento, avrebbe intanto un primo effetto: fare emergere la reale distinzione e articolazione tra le culture politiche presenti nel paese (non più di cinque o sei veri poli), rendere meno polarizzato e più flessibile il quadro degli schieramenti. E forse, anche per questa via, facilitare la formazione di possibili maggioranze di governo.
Un modo, peraltro, per evitare che la dinamica competitiva si focalizzi esclusivamente sull’asse tra «sistema» e «anti-sistema», ridare centralità all’asse destra-sinistra e mettere quanto meno in difficoltà la rendita di posizione su cui finora ha prosperato il M5S (o, in positivo, a favorirne l’evoluzione), portandolo finalmente a misurarsi con una più precisa definizione della propria identità politico-culturale.
In secondo luogo, un vero proporzionale costringerebbe i partiti a cambiare l’asse del discorso rivolto agli elettori. Non più l’idea del «vincere» per governare da soli, ma un altro registro: «Cari elettori, dateci più forza per rappresentare le nostre idee, e per avere più forza nella (inevitabile) mediazione necessaria per dare un governo al paese». Un discorso politico siffatto potrebbe indurre tutte le forze in campo a cercare un punto di equilibrio tra l’autonomia e la specificità delle proprie posizioni e la possibile compatibilità con i programmi altrui, e spingerebbe partiti ed elettori a guardare anche al merito delle possibili politiche da perseguire e dei necessari accordi e compromessi. Significherebbe ridare dignità ad una classica virtù della democrazia parlamentare: il ruolo e i compiti della mediazione politica.

È improbabile che, prima di tornare a votare, si possa rimettere mano alla legge elettorale. Anche perché le idee sono quanto mai confuse, fino a vere e proprie forme di analfabetismo politico: ad esempio, a cosa si pensa quando si parla di doppio turno? Al modello francese fondato sui collegi (che non garantisce affatto «vincitori», ma che potrebbe essere comunque un passo avanti, per la legittimazione dal basso che darebbe agli eletti e perché affiderebbe agli elettori la verifica della compatibilità tra i programmi); o si pensa ancora all’infausto e incostituzionale ballottaggio dell’Italicum, tra due «capi» che trascinano con sé l’intera composizione del parlamento? Si tornerà dunque a votare presto con la stessa legge. Ma, nel caso si provasse davvero a cambiarla, si potrebbe lanciare una proposta semplice, solo in apparenza provocatoria: si ritorni al sistema proporzionale della «Prima Repubblica» (limitandosi solo a dimezzare l’ampiezza delle circoscrizioni). «Tornate all’antico e sarà un progresso», scrisse una volta Giuseppe Verdi. Vale anche per il nostro discorso.