Sono passati due anni sanguinosi dopo il terribile golpe del 3 luglio 2013, che abbiamo raccontato su queste pagine dai sit-in islamisti di tutto il paese.

Ma l’Egitto di al-Sisi non si è stabilizzato. Altro che i diritti gridati in piazza Tahrir nel 2011. Il paese si è trasformato nella culla del sospetto e della repressione dei movimenti giovanili ma anche nel centro di un conflitto contro jihadisti e islamisti moderati che ha effetti in tutta la regione.

I morti della guerra nel Sinai sono forse 170 tra civili, soldati, poliziotti e jihadisti soltanto nei combattimenti di mercoledì. Un vero attacco allo Stato che ha prodotto già nuove leggi anti-terrorismo, processi per direttissima e potrebbe avvicinare il giorno dell’esecuzione di Morsi e dei leader della Fratellanza.

Sono stati ben 15 i sofisticati attacchi simultanei a due passi dalla Striscia di Gaza mentre i droni israeliani sorvolavano la zona. A Sheikh Zuweid ieri c’erano scene di distruzione, degne di Siria e Iraq, con jihadisti ancora asserragliati in alcuni palazzi, tanto che l’esercito egiziano ha assicurato che accetterà anche incursioni israeliane se la guerra dovesse andare avanti. E almeno 22 sono i jihadisti uccisi solo ieri in un raid condotto dall’aviazione del Cairo su Rafah.

La vigilia dell’anniversario è stata così segnata da una notte intera di manifestazioni e scontri in molti quartieri del Cairo. Secondo fonti della Fratellanza, a Ein Shams i poliziotti hanno lanciato gas lacrimogeni all’interno e vicino a celle di detenuti. Questo avrebbe potuto provocare il loro soffocamento. Ma gli abitanti della zona sono intervenuti giusto in tempo per bloccare l’attacco.

Tragici sono stati poi i funerali dei dieci politici della Fratellanza uccisi mentre tenevano una riunione in un appartamento della città satellite di 6 Ottobre. Il medico legale ha riscontrato segni di tortura e fratture multiple, inchiostro da impronte digitali sulle dita. Questo significa che gli uomini sono stati arrestati, poi identificati, per essere quindi torturati e uccisi a sangue freddo. Non ci sono infatti segni di sparatorie sebbene le autorità egiziane li abbiano accusati di resistenza all’arresto.

Questo attentato potrebbe segnare il ritorno della Fratellanza alle contestazioni. «Il criminale Abdel Fattah al-Sisi sta preparando le basi per una nuova fase dove non sarà possibile controllare la rabbia degli oppressi», si legge in un duro comunicato del principale partito di opposizione, ora fuori legge.

Questo è il paese del generale che ha visitato mezza Europa e presto sbarcherà in Gran Bretagna, salutato come il salvatore della pace in Medio oriente. Ma invece dietro la maschera si nasconde l’uomo che più ha esasperato il conflitto sociale e politico dopo la fine dell’occupazione inglese in Egitto.

Ha trasformato il Medio oriente in una regione in guerra tra Stato e islamismo politico come sinonimo di terrorismo, ha reso impossibile l’ingresso nell’arena politica (non parliamo di elezioni parlamentari che in Egitto non si svolgono da tre anni) dei movimenti giovanili e dei partiti islamisti, eccetto i suoi solidi alleati salafiti.

Mai dimenticheremo i volti dei giovani che in poche ore, forse quasi in 2 mila, sono morti o spariti dopo lo sgombero di Rabaa, le sparatorie fuori alla moschea al-Fatah, la repressione durissima dei movimenti studenteschi, la morte dell’attivista comunista Shaimaa al-Sabbagh mentre portava una rosa in piazza Tahrir.

Tutto questo (insieme all’immagine di Mahiennour el-Masry ancora dietro le sbarre) ci fa credere che la rivoluzione non sia finita o forse non ci sia ancora stata in un paese che deve guidare il Medio oriente verso il cambiamento ma è invece prigioniero di un regime militare aggressivo, delle lotte di potere tra militari e polizia, della guerra tra giudici, il centro dei servizi deviati e collusi con l’islamismo radicale.