Dall’inizio della pandemia le carceri latinoamericane sono in subbuglio. Sospese le visite, moltiplicate le misure di isolamento, spesso in celle speciali, e ridotti i momenti di svago e socialità, si registrano proteste e sommosse in tutta la regione. A marzo, 1350 reclusi sono fuggiti durante le rivolte nei penitenziari di São Paulo contro l’annullamento dei permessi di uscita transitoria; il 21 marzo, 23 persone sono state uccise dalla polizia durante una protesta nel centro La Modelo, in Colombia; durante le ribellioni causate dalle condizioni sanitarie e le misure speciali adottante dovuto al Coronavirus, sono morti altri dieci detenuti in Venezuela, due in Perù, cinque in Argentina.

TRA LE PRINCIPALI DENUNCE, quella del sovraffollamento è una costante. Salvo Messico, Belize, Uruguay e Cile, tutti i paesi latinoamericani hanno da tempo colmato le capacità del proprio sistema penitenziario secondo dati del World Prision Brief. In Bolivia le prigioni hanno un’occupazione del 363%, in Guatemala del 357% in Perù del 232%. In Brasile, dove i prigionieri superano il 167% della capacità penitenziaria, secondo dati del ministero della Salute del 2018 in carcere la possibilità di contrarre tubercolosi è 35 volte superiore.
L’allarme era stato già lanciato a marzo dall’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Michelle Bachelet: un milione e mezzo di reclusi in America Latina si trovano in «condizioni igieniche deplorevoli» e i servizi sanitari penitenziari sono «inadeguati o inesistenti».

La politica sudamericana, dalla forte tradizione punitivista, ha cominciato a prendere nota. Il governo del Perù, nelle cui prigioni sono già stati registrati 613 casi positivi al Covid-19 e 13 vittime, ha concesso l’indulto a 3.000 persone, seguendo così i suggerimenti di organizzazioni internazionali come l’Onu, o Human Rights Watch. Cile e Colombia hanno concesso i domiciliari ad altri 7.500 detenuti, e in Argentina si discute tra mille polemiche una misura simile.

É PROPRIO A SANTIAGO de Chile che si registra il focolaio più preoccupante di contagio: nel carcere di Peunte Alto su 1100 reclusi, 300 sono risultati positivi al test di Coronavirus. La Repubblica Dominicana ha registrato 239 casi tra i carcerati, mentre il Brasile ne ha informati 104 e quattro morti.

Ufficialmente i contagiati nelle prigioni latinoamericane sono 1.400, anche se si teme che sia un dato poco affidabile: in Brasile ad esempio sono stati fatti solo 682 test su 773mila detenuti. Bachelet ha puntato il dito specialmente contro le misure preventive di privazione della libertà, che aumentano il numero di detenuti ben oltre le soglie internazionalmente stabilite con «motivi giuridici insufficienti». In Argentina 6 prigionieri su 10 attendono la condanna definitiva in celle da un metro quadrato a testa. In Paraguay sono in custodia cautelare il 77% del totale dei detenuti, in Bolivia il 70% e in Venezuela il 63%.

 

La protesta per le mancate misure anti coronavirus sul tetto del penitenziario Villa Devoto, a Buenos Aires (Ap)

 

Ridurre la popolazione carceraria é dunque il principale consiglio di tutte le organizzazioni internazionali per il continente. Eppure, l’opposizione a iniziative simili è generalizzata, e nessun governante sembra voler assumerne il costo politico. In Argentina una senatrice del partito dell’ex presidente Macri ha addirittura accusato il governo peronista di voler creare «pattuglie di galeotti per attaccare giudici ed espropriare aziende come in Venezuela», dopo pochi giorni di discussione pubblica. Un tabù che si sta trasformando lentamente in tragedia.