La Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato ieri la Turchia per aver violato i diritti di giusto processo, sicurezza e libertà di espressione nei giornalisti Mehmet Altan e Sahin Alpay. Erano stati arrestati nella prima ondata di repressione seguita al tentato golpe del 2016.

Altan è in carcere con una condanna all’ergastolo comminata lo scorso 16 febbraio, sebbene una sentenza della Corte costituzionale turca ne avesse chiesto la scarcerazione l’11 gennaio, decisione rigettata dalle corti penali inferiori che avevano così innescato una crisi giudiziaria senza precedenti.

Sahin Alpay è invece stato rilasciato pochi giorni fa in un tentativo in extremis di evitare la decisione dell’organismo europeo, dopo 20 mesi di carcere preventivo e solo in seguito a due sentenze della Corte costituzionale.

La Cedu ha quindi, per la prima volta, espresso il dubbio che la Corte costituzionale turca possa ancora essere considerata un rimedio legale efficace nel paese, riservandosi di esaminare da vicino il lavoro della Corte e il rispetto delle sue decisioni.

La parlamentare europea Rebecca Harms, che da tempo segue i casi giudiziari turchi, ha dichiarato: «La normalizzazione delle relazioni tra Turchia ed Unione Europea può avvenire solo con il ritorno della Turchia allo stato di diritto e alla protezione dei diritti umani. L’implementazione della sentenza della Cedu sarebbe un primo passo nella giusta direzione».

Un’ulteriore condanna a carico della Turchia è giunta da un’altra istituzione, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) del Consiglio d’Europa, che ha inviato una delegazione in visita al carcere di massima sicurezza di Imrali, dove sono detenuti il leader del Pkk Abdullah Ocalan e altri tre prigionieri.

Se da un lato il Cpt  riconosce il miglioramento delle condizioni materiali di detenzione e dei servizi sanitari ricevuti dai condannati, ha anche condannato duramente le autorità turche per quanto riguarda i contatti con l’esterno. Nessuno dei prigionieri ha potuto vedere un avvocato negli ultimi 5 anni, né i propri parenti negli ultimi 18 mesi (ma le autorità turche sostengono che Ocalan abbia ricevuto una visita del fratello nel 2016).

Sono tenuti in isolamento per 159 ore su 168 settimanali, mentre la direzione carceraria ha disposto un divieto totale di telefonare e anche la corrispondenza scritta è limitata e censurata.

Il Cpt dichiara non esserci stato «alcun progresso rispetto alle raccomandazioni del 2013», anno della precedente ispezione dell’organismo, e di non accettare le giustificazione di causa di forza maggiore (avaria dei natanti che conducono all’isola, cattive condizioni climatiche) che le autorità carcerarie hanno addotto per giustificare l’isolamento dei detenuti dal mondo esterno. Nell’ottica del Cpt «non ci sono legittime considerazioni di sicurezza che giustifichino l’imposizione di simili restrizioni» e ha chiesto al governo di intervenire anche «emendando le leggi» pertinenti

Leggendo la risposta del governo, l’invito non pare essere stato recepito. Le autorità considerano le prigioni turche «rispettose della piena dignità umana» e perciò «non è attualmente prevedibile alcuna alterazione del regime carcerario». A questo punto la palla torna al Consiglio d’Europa, che deve trovare il modo di imporre il rispetto dei diritti fondamentali che spettano a qualunque carcerato e delle convenzioni che la Turchia stessa ha sottoscritto.