In «Antigone» la questione della sepoltura di Polinice si risolve su due piani: l’esistenza dei vivi non deve essere contaminata dalla presenza dei morti; il nemico è incluso nel legame fraterno, non ne è estraneo (il che è in feconda contraddizione con il fondamento dell’agire politico sulla differenza tra amico e nemico). Qui, come sempre, il discorso tragico converge con quello psicoanalitico: il fratello è costitutivamente un amico/nemico e il legame con lui è il prototipo di ogni relazione successiva di amicizia e di inimicizia.
Se la vita e la morte devono essere nettamente distinte (per evitare l’inquinamento) la prima non deve concedere nulla alla seconda: i vivi devono riprendersi tutto ciò che appartiene loro di buon diritto e i morti rischiano di portare via con sé. L’elaborazione del lutto è proprio questo: mantenere viva e duratura l’esperienza della relazione con le persone perdute sia ospitandola nella vita del proprio mondo interno sia rinnovandola fuori di sé in forme nuove e più ampie. Così la morte diventa il concime della vita e la storia vivente di ogni singolo soggetto si trasforma in materia viva dell’umanità. Dal momento che le relazioni non sono vive se non sono libere e la libertà comporta incomprensioni, conflitti e cocenti delusioni, l’amore non è dissociabile dall’odio e ogni pretesa di una loro netta separazione (simile a quella tra amico e nemico) crea soltanto fragili finzioni (tanto diffuse quanto le strade dell’inferno lastricate di buoni propositi). L’odio rende solido l’amore e eliminarlo non è proprio possibile. Ciò può comportare l’uccisione dell’altro all’interno di un conflitto in modo concreto (in guerra quando la nostra sopravvivenza materiale diventa incompatibile con quella dell’avversario) o metaforico (quando si è costretti di sciogliere un legame d’amore o di amicizia). L’uccisione dell’altro è un fatto enorme, una minaccia terribile per la nostra condizione umana, che è fondata sul sentimento di fraternità, e richiede una piena assunzione di responsabilità.
Il nemico ucciso deve sopravvivere come oggetto interno e sia le potenzialità sia le reali esperienze di un legame di desiderio che abbiamo entrambi tradito devono trovare in noi uccisori il loro depositario e garante più convinto e solido. Altrimenti abbiamo ucciso invano e la morte ci infetta. Perfino quando muore una persona molto cara l’odio è presente sulla scena e ha un ruolo indispensabile.
Con la sua partenza il morto rinnova le delusioni che durante la sua vita ci ha dato, attirando il nostro odio, e attiva il desiderio inconscio di morte che abbiamo nei confronti di coloro che amiamo (sia perché rifuggono il nostro possesso sia perché minacciano la nostra libertà). Uccidere il nostro morto (al posto di essere uccisi dalla sua assenza) è una condizione necessaria dell’elaborazione della sua perdita, la premessa della responsabilità nei suoi confronti che ci consente di farlo rivivere.
La morte di Priebke, al contrario di quella di Polinice, non è passibile di lutto e di elaborazione perché è al di fuori della scena tragica. Nello spazio tragico la morte non può coesistere con la morte e i nazisti erano già morti mentre erano vivi (avendo ucciso l’essere umano dentro di sé).
Inoltre, Priebke non ha ucciso il fratello nemico in battaglia ma il legame fraterno in se stesso nel deserto della sua anima. Il solo posto per lui nel suolo pubblico è una fossa (perchè non ci contamini da cadavere come ha fatto da essere vivente) che deve restare anonima perché un uomo col suo nome non è mai esistito.