Insegnante, noto traduttore e letterato: questa la fisionomia del protagonista dell’ultimo romanzo di Urs Widmer, Il libro di mio padre (Keller, accurata traduzione di Roberta Gado, pp. 222, euro  15,50) che arriva in Italia preceduto da Il sifone blu (Keller 2015) e da una sorta di suo gemello, L’uomo amato da mia madre (Feltrinelli 2002).

Karl Widmer, questo il nome del personaggio, nasce in un paesello sulle montagne svizzere in cui ogni abitante ha, da sempre, la sua bara pronta davanti alla porta di casa. Nel giorno del suo dodicesimo compleanno Karl si incammina, per la prima volta da solo, in direzione della piccola chiesa del villaggio. Lì vivrà la tradizionale iniziazione, al termine della quale gli verrà consegnato «il libro bianco» (da cui il titolo) che ogni sera andrà compilato con gli avvenimenti e i pensieri della giornata.

Come in un racconto di Keller o di Gotthelf, durante il rituale serio e grottesco insieme, Karl incontra una fanciulla misteriosa dal viso coperto di lentiggini, e ne resta ammaliato: non la dimenticherà mai, neanche quando crederà di esserci riuscito.
Con tono leggero Widmer, grande scrittore svizzero di lingua tedesca, tratteggia i contorni di una personalità paterna delicata e egoista, descrivendo lo psicodramma di un letterato che vede la felicità in una serie di oggetti la cui natura è contraddittoria: edizioni di pregio, ma di seconda scelta, una radio nuova, ma a noleggio, e così via.

Riverbero di una Svizzera che negli anni quaranta e cinquanta viveva di incoerenze e di goffi tentativi di riscatto, il radicalismo politico e estetico di Karl è rappresentato da personaggi che fanno da contorno – un pittore allievo di Kirchner, gli scrittori del Gruppo 33, Heinrich Böll, o la piccola galleria di ritratti degli esiliati e rifugiati tedeschi, ridotti a un’esistenza basilare, e ancora, i visitatori che giungono dalla Germania post-bellica.

In trasparenza riconosciamo l’autoritratto dell’autore da bambino, che vive di riflesso l’esistenza del padre e della madre e sembra volerla restituire contemporaneamente da più angolazioni, talvolta con distacco, altre volte in modo più intrusivo, lasciando che paure e curiosità guidino il movimento narrativo: «questo bambino, io, mentre dormiva si picchiava la mano in testa a un ritmo così regolare che lo si sarebbe potuto usare da metronomo.»

Il libro bianco del padre andrà perduto poco dopo la sua morte, e il figlio non potrà leggerlo: dunque, il romanziere inventa per il padre una nuova vita, e la ricostruzione della memoria funziona da stesura di un romanzo autonomo, che non è né biografia né autobiografia, in cui pagina dopo pagina una misurata strategia letteraria lega due ritratti: l’uomo destinato al crollo, che usò la letteratura e l’immaginazione per proteggersi nel mondo, e il figlio che esce dall’ombra e prende coscienza di sé nell’invenzione.