Come è noto, fare previsioni è complicato, specialmente in economia; raramente poi, come ha scritto il Financial Times, il suo andamento appare così difficile da leggere come per il 2022. Ma per andare avanti non si può fare a meno delle stesse previsioni e così tentiamo, riferendoci a varie fonti, di stimare per il 2022 l’andamento di quattro voci, le diseguaglianze, l’inflazione, il pil, l’occupazione. In un periodo di grandi incertezze, il trend delle diseguaglianze è quasi l’unica voce sicura. Dagli anni Ottanta esse non cessano di crescere. Il World Inequality Lab ci dice che il 10% delle persone più ricche possiede ormai il 76% dei beni mondiali, mentre il 50% più povero solo il 2%; per quanto riguarda i redditi, il 10% più ricco ne ottiene il 54,8% mentre il 50% più povero il 7,1%.

STUDIOSI COME Piketty e Atkinson hanno già ampiamente esplorato il fenomeno e suggerito le politiche per ridimensionarlo; ma le azioni correttive latitano. Da noi negli ultimi quaranta anni e con tutti i governi le differenze sono continuate a salire; ora nel Pnrr, nel budget 2022 e nella riforma fiscale non vi è traccia di una seria azione in proposito, ciò che non sembra interessare nessuno. Un economista come Jean-Paul Fitoussi parla ormai anche di Draghi (lo si è già detto, et pour cause, di Macron) come di un presidente dei ricchi. Si può affermare che nel 2022 e nel 2023 le diseguaglianze continueranno a crescere nel mondo; le forze che si oppongono al cambiamento sono troppo potenti.

E VENIAMO ALL’INFLAZIONE. Negli scorsi mesi, a fronte dei rilevanti aumenti di prezzi, molte voci, dalla Fed al Fmi, hanno parlato di un fenomeno temporaneo, dovuto a strozzature nella logistica, a forti aumenti nella domanda di beni, alla crisi del petrolio. Ma ora si registrano grandi incertezze sul perché dell’inflazione, sulla sua durata, su come contrastarla.

INTANTO, NEGLI USA a novembre l’aumento dei prezzi al consumo è stato del 6,8%, in Germania del 5,2%, nell’Eurozona del 4,9%, in Italia del 3,7%, le cifre più alte degli ultimi decenni. A maggio l’Ocse pensava che l’inflazione nei paesi aderenti, scontato un aumento del 5% per il 2021, si sarebbe fermata al 2,5% nel 2022, mentre ora la stima al 3,5% per il prossimo anno e ancora al 3% nel 2023.

È così che la Fed Usa terminerà a marzo 2022 il suo programma di acquisto titoli e dichiara che aumenterà i tassi di interesse per tre volte entro lo stesso anno. La Bce, che deve accontentare 19 paesi molto differenti tra di loro, ha deciso di tenerli fermi per tutto il 2022 e di moderare soltanto un poco la politica di acquisto dei titoli; altrimenti le conseguenze su paesi come l’Italia e la Grecia sarebbero state pesanti. Ma, vista la crescente divaricazione tra le due grandi aree economiche, gli speculatori sono già in agguato. Peraltro, le mosse della Fed non spaventano nessuno; la Borsa è rimasta indifferente e i rendimenti dei titoli pubblici sono fermi; si pensa che la stessa Fed non alzerà poi i tassi, viste le previsioni di indebolimento della crescita per la variante Omicron e la bocciatura dei piani di spesa di Biden.

I SINDACATI EUROPEI, a fronte dell’aumento dei prezzi, continueranno a chiedere nel 2022 aumenti dei salari, mentre molte imprese stanno dichiarando una rilevante crescita dei profitti. Sempre l’Ocse, con previsioni pre-variante omicron, stima un incremento del pil per l’Eurozona del 5,2% per il 2021 del 4,3% per il 2022, del 2,5% per il 2023. Per l’Italia, dopo il 6,3% del 2021, si parla del 4,6% per il 2022 e del 2,6% per il 2023. Le stime della Ue sono un poco meno ottimistiche. Così per l’Italia si scommette per il 2022 in un 4,3% (nel 2021 recuperemo forse 170 miliardi di pil, ma ne avevamo persi 230 nel 2020) e in un 2,3% nel 2023.

MENTRE IMPAZZA la pandemia, i dubbi su tali stime crescono insieme al diffondersi della omicron, nonché alle incerte previsioni sull’economia cinese e sull’inflazione e comunque non tutti ci guadagneranno allo stesso modo. Qualcuno rispolvera per i paesi occidentali la minaccia della stagflazione di lontana memoria.

E VENIAMO AL LAVORO. Negli Usa il livello di disoccupazione scende; siamo ormai ai minimi (4,2%), ma non migliorano retribuzioni e condizioni di lavoro. Nella UE essa è ora vicina ai livelli pre-pandemia, con il 7,3% di ottobre, restando comunque più alta che negli Usa; dovrebbe calare al 6,7% nel 2022. Anche l’occupazione supererebbe i livelli pre-crisi nel 2022. Ma la ripresa, dice la stessa Ue, non avviene in modo uniforme ed appare reale il rischio che aumentino le diseguaglianze tra generi, fasce di età e settori della società.

IN ITALIA, PER L’ISTAT tra la fine del 2019 e quella del 2020 si sono persi 622 mila posti; nel 2021 è aumentata l’occupazione, ma il numero dei disoccupati è ancora più alto del livello pre-pandemia e neanche alla fine del 2022 si ritornerebbe pienamente alla situazione pre-crisi. Comunque, l’aumento riguarderà per la gran parte, come nel 2021, lavoro precario e sottopagato, con molti contratti che durano meno di un mese e con donne e giovani che restano al margine (questi ultimi continueranno ad emigrare). Gli occupati a termine sono ormai più di 3 milioni. Intanto nel 2020 le retribuzioni medie sono diminuite del 6%. Possiamo chiudere queste note con un’altra certezza: il numero dei rider senza diritti, nonostante le sentenze di molti tribunali, continuerà nel 2022 a crescere nel mondo.