Seguendo un costume non ancora del tutto scomparso, nelle culture contadine l’inizio di un nuovo anno era caratterizzato dall’osservazione dei zorni endegari (indicatori), anche detti spei d’l an (spie dell’anno) o calende: si osservava che tempo faceva per 12 giorni e, posto che ognuno corrispondesse a un mese, se ne sarebbe previsto l’andamento. A riprova, si osservava ora per ora il 25 gennaio, giorno dedicato a san Paolo e conosciuto come Paolo «dei segni». Un metodo non scientifico ma che raggiungeva vari scopi, innanzitutto quello di unire la comunità nei saperi e rispondere insieme a una natura imperscrutabile. Creava comunità, aiuto reciproco e questo bastava, se non a risolvere, almeno a controllare gli eventi calamitosi che l’anno poteva riservare. Inoltre, apriva la strada alla speranza.

GENNAIO HA LA MAGIA della partenza, dell’inizio di una nuova storia, quando la speranza è al suo culmine, pura potenza, non ancora atto. È uno stato di grazia pieno di tutte le attese possibili, anche di tutti gli inizi possibili, come in un racconto di Calvino: «Vorrei poter scrivere un libro che fosse solo un incipit, che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità dell’inizio, l’attesa ancora senza oggetto» (Se una notte d’inverno un viaggiatore). Perché in fondo, «quello che conta d’ogni cosa è solo il momento in cui comincia, in cui tutte le energie sono tese» (La giornata d’uno scrutatore).

PER LO STESSO MOTIVO, in questi giorni si ricorre all’astrologia e a quelle forme divinatorie che la società ci permette, nel perenne bisogno di individuare un senso umano e personale alle incognite future, ma anche al presente. «Pre-vedere» è, infatti, un tentativo di unificare sfere esistenziali diverse come memoria, aspettativa, acquietamento dell’ansia, che restano separate e senza risposta in un mondo governato da scienze quantitative. Si potrà fare una statistica dei sogni, ma non spiegarne il senso con quella. In più, l’astrologia è attenta al mondo circostante e invita a essere vigili verso i segnali dell’universo, come nelle culture arcaiche di caccia e di pesca, dove si insegna agli iniziandi a riconoscere i segnali delle capricciose entità che condividono il mondo con loro. Qui le pratiche divinatorie non sono avulse dalla cultura, ma si collocano nel punto d’intersezione tra religione e caccia.

LA POSSIBILITÀ DI GUARDARE al futuro in un modo attivo resta fondamentale, e non solo a gennaio. Le scienze umane, l’antropologia in particolare, ci hanno mostrato come il passato e la tradizione siano frutto di una scelta retrospettiva (Lenclud, «La tradizione non è più quella di un tempo», in Oltre il folklore, Carocci, 2001), ma anche il futuro non è mai dato, visto che è frutto di una visione e di una costruzione culturale che abbiamo la possibilità e la libertà di scegliere e creare. Oggi i più giovani, in quella loro estenuante lotta per l’emancipazione economica, rischiano di vedere un futuro ineluttabile e predeterminato dipendente dal mercato e dall’economia. Invece, è una costruzione collettiva che richiede immaginazione e sguardi divergenti, due reagenti indispensabili alla democrazia e alla giustizia.
Senza il passato e la memoria non si va da nessuna parte, è chiaro, ma di più – e in questo incipit d’anno è meglio ricordarlo – dovremo recuperare al dibattito pubblico la dimensione del futuro e della speranza, andando oltre l’orgia d’immagini di violenza, disastri e cambiamenti climatici, crisi economiche, conflitti e pandemie. Tutte cose da sempre note all’umano ma che circolano con una velocità mai raggiunta dalla periferia al centro e viceversa, creando angosce (e varianti) locali che alimentano quelle globali, in un processo di autocombustione continua.

VIVIAMO nella società del rischio (Ulrich Beck, Carocci, 2005) e dell’incerto ma abbiamo il dovere di andare incontro al futuro, oltrepassando il presente. Come ci ricorda la pietra tombale di Ernst Bloch a Tübingen, Denken heisst überschreiten, pensare significa oltrepassare. Anche aspirare e sperare, che non sono chimere ma attese attive che producono azione e cultura. Se è vero che «ciò che è reale è razionale», come voleva Hegel, anche aspirazioni, speranze e immaginazione producono realtà, e quindi sono reali, «né più né meno delle rappresentazioni collettive di Durkheim», suggerisce Arjun Appadurai nel suo Modernità in polvere (Meltemi, 2001) e altrove (Le aspirazioni nutrono la democrazia Et al., 2011) dedica acute riflessioni all’argomento.
In questo inizio d’anno, dunque, confidiamo nel potere trasformativo della speranza. Che non è solo tendere a una meta ma trasformare la stessa vita in viaggio, dandole al contempo un senso, nella duplice accezione di direzione e significato.