A stento si intravede la fine di questa drammatica pandemia, ma gli scienziati già ci dicono che con molta probabilità in futuro dovremo affrontarne altre, forse ancora peggiori. È chiaro che nessuno vorrebbe sentirselo dire in un momento come questo, quando l’unico desiderio che occupa i nostri pensieri è quello di uscire al più presto da questo limbo in cui i decessi non sembrano fermarsi, le nostre libertà personali sono fortemente limitate e ci si continua ad ammalare. Ma, per quanto sia forte la tentazione di mettere a tacere queste moderne Cassandre, sforzarsi di ascoltarle è fondamentale, perché il momento per prevenire future esplosioni pandemiche è proprio ora. I responsabili delle prossime epidemie infatti sono già tra noi: si tratta dei patogeni degli animali, che potrebbero saltare alla specie umana come già accaduto con il Sars-CoV-2.

LA WORLD HEALTH ORGANIZATION ha messo in luce la necessità di interrompere il ciclo «panic then forget», ovvero quel processo evidenziato nelle grandi crisi del passato per cui una volta controllata l’esplosione del problema la tendenza è quella a distogliere totalmente l’attenzione invece di investire energie e denaro per prevenirne una nuova insorgenza. In altre parole, dovremmo fare tesoro della tragica esperienza del Covid-19 divenendo consapevoli del pericolo associato a nuovi virus. Evitare di vivere prigionieri di altre pandemie infatti non è impossibile, ma comporta un radicale – e più che mai urgente – cambiamento dei nostri stili di vita e consumi, nel segno di un ripensamento del rapporto che abbiamo con la natura e gli animali.

Per capire come prevenire le prossime pandemie è fondamentale ripercorrere l’origine di questi fenomeni e identificare quali atteggiamenti sono a maggior rischio epidemico. Ne abbiamo parlato con David Quammen, il giornalista, scrittore e divulgatore scientifico autore di Spillover, definito «profeta del covid-19».

NEGLI ULTIMI OTTANT’ANNI la presenza di nuove malattie infettive è cresciuta esponenzialmente e tra quelle hanno colpito l’uomo nell’ultimo decennio oltre il 70% hanno origine animale. Un report del programma ambientale delle Nazioni Unite dello scorso luglio spiega come la pandemia in corso si inserisca in un contesto in cui le zoonosi, ovvero malattie che dagli animali «saltano all’uomo», sono sempre più frequenti. Inoltre, all’insorgenza di nuovi patogeni ogni anno si accompagnano malattie che ancora non abbiamo sconfitto, come l’Aids e l’Ebola.

Perché questo salto avviene a ritmo sempre più serrato? Le cause sono molteplici ma tutte hanno a che fare con la pesantissima impronta ecologica della nostra specie sul pianeta.

Non è possibile attribuire la colpa di una pandemia a un singolo paese, come si è cercato di fare con la Cina. Le attività che facilitano maggiormente il passaggio di virus alla nostra specie riguardano tutti noi. «Consumare risorse, avere figli che continueranno a farlo dopo la nostra morte, mangiare, bruciare combustibili fossili, utilizzare minerali come il coltan, un elemento necessario per costruire i nostri smartphone e i nostri pc: tutte queste attività rendono ciascuno di noi parzialmente responsabile», ci scrive David Quammen. La stessa Greenpeace ha usato in una delle sue ultime campagne lo slogan «L’industria del virus è il nostro sistema produttivo», evidenziando come alla base delle pandemie ci sia proprio il modello economico e di consumo occidentale.

Lo spillover, incluso quello di virus potenzialmente pandemici, è favorito da diversi fattori tra cui deforestazione, surriscaldamento globale e inquinamento. Diverse specie per colpa di questi fenomeni si sono ridotte drasticamente fino a rischiare in alcuni casi l’estinzione e all’interno dell’ecosistema, così, è venuto meno il filtro che queste garantivano tra l’uomo e altri animali. «La salute degli ecosistemi dai quali noi e le altre specie dipendiamo sta subendo un deterioramento più rapido che mai», si legge nel report dell’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) sulla «sesta estinzione di massa». «Stiamo minando le stesse fondamenta delle nostre economie, del nostro sostentamento, della sicurezza alimentare, della salute e qualità della vita a livello mondiale».

LA STESSA PERDITA DI BIODIVERSITÀ ha favorito la diffusione di malattie, perché alcuni gruppi animali, come i roditori, non avendo più predatori e antagonisti si sono moltiplicati rendendo più comuni i virus o i batteri di cui sono portatori. Questo è accaduto ad esempio alla fine degli anni ’70 con la malattia di Lymem in Connecticut, negli Stati Uniti, quando il topo dalle zampe bianche si è diffuso nei quartieri residenziali edificati dove prima c’erano boschi. Con la distruzione del loro ambiente, le volpi, i rapaci e le donnole sono scomparsi, ma questo roditore, al contrario, in assenza dei suoi predatori naturali, ha continuato a riprodursi indisturbato e con lui la patologia di cui è portatore sano, che attraverso le zecche è arrivata all’uomo. Il risultato è stata una vera e propria epidemia.

UN’ALTRA ATTIVITÀ UMANA AD ALTO RISCHIO epidemico è la tratta della fauna selvatica: sottrarre diverse specie selvatiche dai loro ambienti naturali per poi metterle a contatto tra di loro – e con l’uomo – crea l’occasione perfetta per il salto, come accaduto nel «wet market» di Wuhan, dove sarebbe scoppiato il primissimo focolaio di Covid-19. Infine, va considerato che in un contesto globalizzato come quello in cui viviamo, i patogeni, compresi quelli con maggiore potenziale pandemico, esattamente come noi, viaggiano molto più facilmente e velocemente da una parte all’altra del mondo. Anche questa circostanza spiega perché ogni anno compaiano nuove infezioni, di cui alcune potrebbero trasformarsi in vere e proprie pandemie.

Sul fatto che quella di Covid-19 non sia purtroppo l’ultima pandemia, gli scienziati non hanno molti dubbi. «Ce ne saranno altre – sottolinea Quammen – e forse più mortali. Arriveranno sotto forma di nuovi virus, sconosciuti all’uomo: se ne contano molte migliaia che vivono negli animali ma sono in grado di diventare virus umani nel momento in cui irrompiamo negli ecosistemi di altre specie». Ma è possibile dire quale sarà la prossima pandemia? «Non sappiamo – continua lo scrittore – né quale sarà la prossima minaccia virale ad emergere né quanto pericolosa si rivelerà. Ma conosciamo alcuni tipi di virus, come i coronavirus, le influenze, i retrovirus (gruppo che include il morbillo) che potenzialmente possono essere molto pericolosi per gli uomini».

QUAMMEN RIUSCÌ A PREDIRE che ci sarebbe stata una pandemia come quella attuale con un anticipo di quasi 10 anni, ma a chi lo chiama profeta risponde di non esserlo affatto: «Ho semplicemente ascoltato con attenzione i migliori scienziati esperti di malattie e ho raccontato quello che dicevano», ci scrive. Quanto a prevenire, in generale, il fenomeno dello spillover, secondo il divulgatore scientifico, si tratta di un’impresa veramente ardua. Quasi certamente sarebbe stato impossibile impedire il salto del Sars-CoV-2; quello che invece si sarebbe potuto fare meglio, sottolinea lo scrittore, è «controllare la diffusione del virus, soprattutto in alcuni Paesi». Perché nuovi virus in futuro non diventino epidemici o peggio ancora pandemici sarà quindi fondamentale agire tempestivamente prendendo da subito tutte le precauzioni che nel caso del nuovo coronavirus sono state inizialmente trascurate.

PER PREVENIRE ALTRE PANDEMIE, da una parte si tratta di mappare i virus che potenzialmente potrebbero fare il salto di specie, tenerli sotto controllo, sviluppare vaccini efficaci contro interi gruppi di patogeni e rafforzare le nostre capacità di reagire a un’emergenza sanitaria; dall’altra di ridurre il nostro consumo di risorse e il nostro impatto sull’ambiente affinché non si creino le condizioni perché avvenga lo spillover. «Ogni sforzo di migliorare la salute umana è destinato a fallire a meno che non venga rivista la relazione tra umani e animali e non si fronteggi la minaccia del cambiamento climatico che sta rendendo la nostra Terra sempre meno facilmente abitabile». Queste in un video messaggio dello scorso dicembre erano state le parole di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, che ha sollecitato l’introduzione a livello internazionale di politiche per proteggere e risanare l’ambiente. La nostra sopravvivenza come specie – e il Sars-CoV-2 in parte dovrebbe avercelo mostrato – è strettamente interconnessa alla salute del pianeta.

Se per noi e per le prossime generazioni non vogliamo un futuro in cui le pandemie siano all’ordine del giorno – con la loro inesorabile scia di morte, sofferenza, crisi economiche e limitazione della libertà – agire ora per limitare il grado delle nostre alterazioni sull’ambiente è imprescindibile. Oltre a ridimensionare la nostra domanda di risorse, sarà necessario ridurre gradualmente anche la popolazione mondiale: la nostra impronta ecologica sarà sempre troppo pesante finché 7,7 miliardi di persone continueranno a consumare cibo, produrre rifiuti, bruciare combustibili fossili per spostarsi e usare dispositivi che richiedono la continua estrazione di minerali. In questo senso le campagne vaccinali non sono una soluzione definitiva al problema delle pandemie. «I vaccini sono un buon modo di controllare il danno – mette in luce Quammen -. Ma la fonte delle pandemie è da individuare nella grandezza della popolazione umana e nei suoi consumi. Abbiamo bisogno di ridurre il nostro impatto sul mondo naturale. Se lo faremo, meno virus em