Pretend It’s a City, fai finta che sia una città, è l’intimazione – accompagnata da uno «Scansati!» – con cui Fran Lebowitz si rivolge furibonda ai turisti che – assorti nello studio di mappe o schermi di telefonino – intralciano il suo passaggio sui marciapiedi di Manhattan. È anche il titolo della serie di sette episodi che la scrittrice/umorista e Martin Scorsese hanno realizzato per Netflix, un omaggio a New York e alla loro amicizia, da cui era già nato il documentario Public Speaking. Girata prima della pandemia, e quindi prima che i turisti di sopra svanissero dalle strade della città, la serie sarebbe un regalo comunque, ma acquista un sapore e un rilievo diversi vissuta in un momento così strano e difficile per New York, in cui vie, piazze e parchi sono spopolati, molti negozi e ristoranti sono stati chiusi per sempre e i passatempi favoriti di cui Lebowitz parla (incluso prendersela con chi le blocca il passaggio) sono per lo più off limits. Non è un caso che, nonostante il direttore della fotografia Ellen Kuras avesse filmato esterni con Lebowitz anche durante il lock down, con l’idea di attualizzare il tutto, alla fine si sia deciso di non usare quei materiali.

LA DETERMINAZIONE con cui – in ogni episodio – la scrittrice fende le strade della sua metropoli adottiva (è nata a Morristown, in New Jersey, nel 1950), calzata di stivali da cowboy con suola extra spessa, è tagliente come le divagazioni intellettuali con cui – con la stessa regolarità- intrattiene Scorsese ad un tavolo di The Players, il leggendario club teatrale, su Gramercy Park. La terza location chiave della serie è il Queens Museum, dove Lebowitz cammina – come la donna gigante in Attack of the Fifty Foot Woman – dentro alla replica della miniatura di New York che l’urbanista Robert Moses fece costruire per la Fiera mondiale del 1964. Cultura, trasporti pubblici, sigarette, i costi esorbitanti delle case, lo sport, la social life, la piaga dei turisti… in puntate più o meno tematiche, Lebowitz riffa liberamente sui soggetti classici di una tipica conversazione newyorkese – il tono di complicità, ricco di autoironia, è parte del gioco.

Perché per lei, arrivata negli anni settanta, per sfuggire alla provincia e all’omofobia, New York è un club esclusivo come The Players. Sentimento, questo, che una grande maggioranza di chi abita qui condivide pienamente, a costo di sfiorare il paradosso. Non è un caso che proprio la città dei seventies – sinonimo, nei racconti della stessa Lebowitz, di degrado urbano, violenza, appartamenti fatiscenti, notti brave e arte a gogo – sia oggi un oggetto di rêverie quasi romantiche. Affacciata sul baratro di un potenziale deficit da 61 miliardi di dollari tra oggi e il 2024, disertata dai «bancari» che si sono spostati agli Hamptons, pullulante di dehors improvvisati, in variazioni multiple tra la baita valdostana e il tepee, il crimine in salita e i servizi pubblici allo stremo, New York guarda a quel passato quasi con affetto.

LA SERIE cita esplicitamente la mitica copertina del «Daily News», Ford to City: Drop Dead, il 29 ottobre 1975, quando Gerald Ford si rifiutò di soccorrere New York dalla bancarotta con fondi federali. Anche se si spera che l’arrivo di Biden alla Casa bianca allevierà almeno un po’ il disastro, qui siamo tutti pronti per quel ritorno al futuro.
In un’intervista al «New York Times» pubblicata per l’uscita di Pretend It’s a City, Lebowitz ha dichiarato di essere arrivata a distillare attraverso la rabbia ogni emozione umana. Eppure, parte del piacere di trascorrere qualche ora con lei, è proprio il fatto che la sua rabbia sembra così poco «rabbiosa» – l’ indignazione e gli assoluti (su cui lo humor e la sua figura di intellettuale pubblico sono basati da sempre) un po’ una pantomima dietro a cui si nasconde un pensiero che è vorace quanto è affilato, e una curiosità per le cose umane enorme (altrimenti, tra l’altro, come spiegare la biblioteca di 10.000 libri per cui ha dovuto acquistare un appartamento gigante che non può permettersi?). Che stia raccontando di quando faceva la tassista da ragazza (guardata in cagnesco dagli autisti uomini), del valore puramente cosmetico dei mosaici a sfondo canino per cui la Metropolitan Transportation Authority (invece di aggiustare binari, carrozze e segnali decrepiti) ha chiuso la sua stazione della metropolitana per mesi, o della sigaretta sintetica regalatale da Leonardo Di Caprio sul set di Wolf of Wall Street (dove lei aveva una particina da giudice), i suo occhi comunicano vivacità inesauribile, la risata è calda; la delivery di ogni battuta perfetta.

QUANDO Spike Lee cerca di provare che il suo odio per gli sport è in contraddizione con il fatto che presenziò a uno degli incontri di boxe più mitici della storia, tra Alì e Frazier, al Madison Square Garden, l’8 marzo del 1971, lei risponde senza perdere un colpo, che amava Alì, e che poi ci era andata per gli abiti sfarzosi e le pellicce dei protettori di Harlem – «eravamo nel mezzo della pimp culture». Pretend It’s a City è imperdibile (non solo per chi ama New York), ed è dedicato a Toni Morrison.