Questo articolo fa parte delle tradizionali «previsioni» di inizio anno pubblicate dal Nieman Lab, il laboratorio di studio del giornalismo nell’era digitale della Nieman Foundation for Journalism di Harvard.

Sasha Koren
Sasha Koren

Ho due nipotine di 4 e 7 anni, e come molte persone che hanno figli, anch’io sono preoccupata per il mondo che vedranno in futuro e per come lo affronteranno. Sono preoccupata per alcune ovvie ragioni: le conseguenze del cambiamento climatico, l’economia, le guerre, la violenza. Ma c’è un’altra cosa che mi preoccupa molto, forse meno comune: ho paura che le notizie e le informazioni su tutti questi argomenti importanti non saranno facilmente disponibili – o perfino evidenti -, ai miei nipoti e ai loro coetanei, mentre entrano in un mondo di adulti che, nel giro di una generazione, è destinato a essere popolato comunque da forti consumatori di notizie.

Se suona allarmistico o esagerato, lo faccio in modo intenzionale.

Certo, sono preoccupata dalla crisi dell’editoria come industria e dalla mancanza di un modello di business sostenibile a lungo termine per il giornalismo. Ma in aggiunta a tutte le sfide economiche e finanziarie che in tutto il mondo mettono in pericolo l’esistenza delle organizzazioni giornalistiche più importanti, penso che ce ne sia un’altra che inizia a stagliarsi all’orizzonte: il fatto che le nostre audience future – almeno quelle che danno valore al giornalismo tanto da dargli un posto rilevante nelle proprie vite – possano essere «distratte» in modo permanente.

Attirare l’attenzione sul giornalismo che le nostre redazioni producono ogni giorno è un passo ormai vitale nel modo in cui lavoriamo e diffondiamo l’informazione come industria. Se una volta per sviluppare l’audience e curare il pubblico bastava buttare una copia del giornale sul tavolo di un bar all’ora di colazione, o mandare un abbonamento alla biblioteca pubblica, oggi ci sono interi team dedicati solo a questo. Non è più un’idea tanto radicale dire alle redazioni che devono uscire là fuori e attrarre il proprio pubblico piuttosto che aspettare le vendite in edicola o le visite sul sito sperando che i lettori vengano a noi. Di più: oggi abbiamo competitor che non sono solo gli altri giornali simili a noi per tipo o area di copertura ma dobbiamo scontrarci con qualsiasi singola forma di media o di interattività immaginabile: con ogni contenuto, notifica, gioco, streaming video, immagine e così via.

Non è un panorama facile dove attirare traffico, aumentare il tempo di attenzione e sviluppare la fedeltà di lettura. Mi tolgo il cappello di fronte a tutti coloro che in tutto il mondo oggi lottano per questo. Quella per l’attenzione è una buona lotta, che bisogna fare.

Sviluppare l’audience e lavorare costantemente alla costruzione del brand sulle tante nuove piattaforme è un passo necessario per tutte le organizzazioni editoriali e giornalistiche. Ma, contemporaneamente, bisogna prestare sempre maggiore attenzione a quanto poco (o tanto) i lettori più giovani o potenziali conoscono del mondo che li circonda, di noi, dei nostri valori e del mucchio di lavoro che come professionisti dell’informazione facciamo ogni giorno.

Ammettere che il risultato dei nostri sforzi si trova nello stesso spazio visivo di qualsiasi altro segnale che richiede attenzione non è così scontato come potrebbe sembrare.

 

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I miei amici insegnanti, sia alla scuola inferiore che al liceo, mi dicono che i loro studenti tendono a considerare tranquillamente «giornalismo» o «news» elementi variegati che trovano su tantissime piattaforme diverse: YouTube o Instagram, per esempio, allo stesso modo o forse più di quello che vedono in tv e leggono sul sito o la copia di un giornale. Un amico, padre di tre figli tra i 6 e i 12 anni, mi ha raccontato che ciascuno di loro interagisce con tanti media diversi in modo completamente autonomo. Sono esempi tutt’altro che scientifici, ovviamente, ma penso possano suggerire che ci sta sfuggendo qualcosa.

C’è una grande domanda che, come industria abbiamo ormai il dovere di porci: dove ci porterà tra 5 o 10 anni questo costante e permanente scivolamento del tempo di lettura e dell’attenzione?

Quando tutti i vecchi metodi smetteranno di funzionare, le richieste di attenzione saranno sempre di più e la familiarità con le fonti di prima mano sarà in declino, come riusciremo ancora ad avere l’attenzione necessaria al nostro giornalismo? Come riusciremo a dare le informazioni a chi ne ha più bisogno?

Non dico certo di ripristinare le antiche abitudini e buttare un giornale di carta davanti ogni portone, né di lanciare una campagna di massa per dire ai genitori di forzare la dieta giornalistica dei propri figli con app e notifiche privilegiate.

Penso però che come professionisti dobbiamo ancora mettere davvero gli occhi e la testa su quello che i lettori esprimono tramite facebook oppure su come alcune fortunate organizzazioni riescono a raggiungere audience particolari attraverso la funzione «Scopri» di Snapchat. Dobbiamo lavorare duramente e non smettere di innovare oggi, se vogliamo essere rilevanti anche domani.

Per avere almeno una chance che il giornalismo resti un fattore importante nella vita quotidiana delle future generazioni, credo che dovremmo lavorare a fondo per capire i lettori più giovani in un’ampio ventaglio di classi di età, e fare gli straordinari per seguirli mentre crescono e cambiano. Dobbiamo capire come si sta sviluppando il loro carattere, cosa li tocca, il modo in cui adottano le nuove tecnologie. Poi, dobbiamo fare in modo di dargli le notizie in contesti e formati con cui loro possano relazionarsi, senza diluirne la qualità.

Senza un mucchio di ricerca seria sui lettori di domani, stiamo creando un punto cieco che renderà sempre meno ovvia la nostra rilevanza come fonte di notizie, cultura e informazione. Per lenire almeno in parte queste preoccupazioni, è tempo di promuovere qualche ricerca davvero innovativa. Su chi oggi ha 10 anni, o perché no, su chi è in età prescolare.

Sasha Koren è la responsabile del Mobile Innovation Lab di the Guardian.

(copyright Nieman Lab)