Nella tarda serata di martedì il ministro degli esteri Javad Zarif aveva dato le dimissioni su Instagram, che in Iran non è vietato come lo sono invece altri social. Dapprima gli auguri per la festa della mamma e la giornata delle donne, che in Iran coincidono con il compleanno di Fatima, figlia di Maometto. Dopodiché, le dimissioni. A ciel sereno, senza fornire spiegazioni, scusandosi per eventuali disagi durante il mandato di 67 mesi.

Pare che la lettera di dimissioni fosse pronta da mesi, ma che il presidente non volesse saperne. Soprattutto non sarebbe stato opportuno abbandonare il posto di lavoro durante le celebrazioni dei 40 anni della Repubblica islamica. Dopo aver lasciato tutti con il fiato sospeso, ieri pomeriggio Rohani ha elogiato il suo ministro per resistenza e capacità. Intanto il suo portavoce faceva sapere che le dimissioni erano state respinte. Ma forse Zarif sperava in una parola di incoraggiamento anche dal parte del leader supremo Khamenei.

A far perdere la pazienza al capo della diplomazia pare sia stato il prolungato braccio di ferro con le Guardie rivoluzionarie, preponderanti non solo militarmente ma anche in economia e in politica. La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso sarebbe stata la presenza di Qassem Soleimani, il comandante in capo dei pasdaran, all’incontro a sorpresa di lunedì mattina con il presidente siriano Bashar al-Assad.

Esponente dell’ala dura in politica estera, il generale era in prima fila con il leader supremo Ali Khamenei; dopotutto, se la dinastia alawita è ancora al potere è grazie all’intervento sul campo delle Guardie rivoluzionarie. Assente dalle foto, Zarif ha capito di aver perso credibilità sul fronte internazionale e di essere usato dai vertici solo nel dialogo con Bruxelles dove peraltro è sotto pressione a causa del programma missilistico.

Sul fronte interno, a criticarlo sono in molti: lo ritengono colpevole di avere svenduto la sovranità nucleare in cambio di niente. Ma anche per il coinvolgimento militare in Siria, Libano, Iraq e Palestina. La domanda ricorrente è perché le autorità di Teheran spendono soldi all’estero anziché far fronte alle necessità degli iraniani. Una domanda che ha posto apertamente, su Instagram, Vouria Ghafouri, il centrocampista dell’Esteghlal e della nazionale iraniana, poi convocato per aver ficcato il naso in politica.

Ma torniamo a Javad Zarif. In carica dal 2013, era stato lui a incontrare il segretario di Stato americano John Kerry in Oman alla presenza di Catherine Ashton, l’allora capo della diplomazia europea. Erano stati i primi incontri bilaterali dalla presa degli ostaggi nell’ambasciata americana di Teheran il 4 novembre 1979 e avevano spianato la strada verso l’accordo nucleare del luglio 2015.

Cinquantanove anni, Zarif ha conseguito il dottorato in diritto internazionale all’Università di Denver, Colorado; i suoi due figli sono nati negli Stati uniti e quindi cittadini americani; in passato era stato ambasciatore presso le Nazioni unite. Alla notizia delle dimissioni la giornalista conservatrice Zahra Tabakhi ha twittato: «Vattene Yankee. E non tornare mai più». Dello stesso tenore la reazione del premier israeliano Netanyahu.

Per noi, in Europa, Zarif è il volto buono della Repubblica islamica. È stato lui a traghettare l’Iran fuori dall’impasse nucleare con il suo sorriso, la battuta pronta, l’ottimo inglese. Se ieri Rohani non ci avesse messo una pezza, l’uscita di scena di Zarif avrebbe messo in difficoltà l’Unione europea che vede in lui l’interlocutore per contrastare il riciclaggio di denaro e portare gli standard finanziari al livello di quelli internazionali come condizione per continuare il business.

Certo è che Zarif è una delle vittime della scriteriata politica di questa amministrazione americana: mandando a monte l’accordo nucleare, il presidente Trump ha messo in seria difficoltà il governo Rohani. Ma forse la mossa di Zarif è stato un modo per rilanciare, per fare in modo che fossero in tanti a chiedergli di restare: ieri mattina la maggioranza dei deputati del majlès, il parlamento iraniano, ha firmato una lettera chiedendogli di continuare il suo lavoro. E su Instagram sono stati in tanti a scrivergli.

Perché gli iraniani sono consapevoli che i mali dell’Iran non sono da imputare all’amministrazione Rohani e al suo ministro degli Esteri. Resta il fatto che dal gennaio 2018 il rial ha perso il 70% del suo valore, secondo il Fondo monetario internazionale la crescita economica è limitata al 3% a causa dei due ultimi round di sanzioni voluti da Trump, la corruzione dilaga insieme ai monopoli e la mala gestione della cosa pubblica resta il comune denominatore dei diversi governi.