Se ha un senso la definizione di Opera/Mondo, cioè un’opera inclusiva di un proprio spazio-tempo posseduto fino alla totalità, essa andrebbe applicata a Storia umana e inumana(Bompiani, «Narratori italiani», pp. 469, euro 19.00) che comprende la seconda e terza sezione (Nella regione profonda; Nei boschi felici) della trilogia che Giorgio Pressburger aveva inaugurato due anni fa con la pubblicazione di Nel regno oscuro. Non si tratta di un romanzo ma, piuttosto, di un poema scritto in prosa e in forma di racconto onirico il cui modello dichiarato è la Commedia, un modello in sé schiacciante ma tuttavia debitamente distanziato per il rovesciamento dello schema primario, l’istanza cognitiva che rimanda al viaggio, in questo caso non più un viaggio oltre il tempo e nell’aldilà ma un viaggio nel tempo e in quell’aldiquà che stringe, in un unico nesso, storia, geografia e memoria del secolo alle nostre spalle. Va subito aggiunto che Storia umana e inumana si configura non soltanto come un’opera di grande complessità strutturale ma, innanzitutto, come la testimonianza di un atteggiamento di profonda serietà nei riguardi della letteratura da parte di un autore che ha sempre rigettato sia gli interdetti sia gli obblighi vigenti, vale a dire l’infinito intrattenimento della parodia e il cinismo sostanziale della fiction.

Una dozzina di volumi in bibliografia (da Storie dell’ottavo distretto, 1986, firmato con Nicola, il suo gemello troppo presto perduto, a L’orologio di Monaco, 2003), Pressburger si è dato una posta più semplice e insieme più classica, quella del pronunciamento di una sua personale «verità», parola che le vigenti poetiche ritengono infatti temeraria. E appunto viene in mente, a proposito della sua trilogia, un termine che Dante stesso deduceva da un’Etica nicomachea in latino voltando megalopsukìa in «magnanimitade» quale sinonimo di capienza e prima ancora di apertura, che oggi diremmo grandangolare, alla fenomenica della realtà e alla esperienza della vita. Colui che in Storia umana e inumana narra in prima persona, procedendo in un inframondo dove vita onirica e diurna tendono a identificarsi, ha due guide soccorrevoli che soltanto nell’ultima sezione a poco a poco si allontanano fino a dileguarsi: Freud (perché questo viaggio è tanto una analisi quanto un’autoanalisi) e Simone Weil, leggendaria ragazza del suo secolo (filosofa, scrittrice e martire cristiana, alla lettera) il cui ideale di radicamento, l’enracinement di cui dice il suo titolo più noto, non rimanda a un costrutto identitario ma, all’opposto, legittima l’accettazione della humanitas quale vicissitudine dinamica e disponibile a ogni alterità. È lei specialmente a sostenere il portavoce dell’autore nella landa purgatoriale di Nella regione profonda ed è lei che si interpone fatalmente tra i fantasmi dialogici (a decine, da Gershom Scholem a Lévinas, da Michelstaedter a Kafka)che scandiscono il rito di purificazione ovvero il lungo addio agli eventi e agli spettri del Novecento.

Qui la scrittura, capiente fino alla polifonìa, viene iterata e spaziata in vere e proprie lasse metriche dove batte un antico e sommesso endecasillabo, secondo la cadenza che traduce la respirazione fisica nel ritmo di una confessione espiatoria. Altro è invece l’orizzonte dell’ultima sezione, Nei boschi felici, altro è il passo di una prosa che accelera disponendosi nella forma di un vortice il cui occhio vuoto (sussultante, risonante, tellurico) libera a flusso una materia stavolta dichiaratamente autobiografica, cioè tutto il passato di Pressburger in persona: la natìa Budapest, il quartiere ebraico nell’Ottavo distretto, povertà e incurante sopravvivenza, monelli, ragazze, la maglia biancoazzurra dell’MTK; poi il fascismo dell’ammiraglio Horthy, l’incubo della persecuzione razziale e della Shoah; quindi il dopoguerra comunista e stalinista fino al ’56, un’epoca gravida di stenti e di lutti; infine l’esilio e l’approdo in Italia, quando il tempo trascorso, oramai, si è calcificato in un atroce sigillo del ricordo e pertanto in un obbligo implicito, sottaciuto, a risarcirlo tutto quanto nella scrittura.

L’assetto di Nei boschi felici tende a normalizzare la polifonia o meglio a riassorbire nella voce di un unico interlocutore e affabulatore la forza centrifuga di cui vibravano le sezioni precedenti. Le guide del mondo nebbioso, oscurato, Freud e la Weil, si fanno evanescenti e danno luogo alla monodia del padre, figura indimenticabile, un piccolo commerciante ebreo, venditore di carne d’oca e poi di libri a rate, svagato e generoso, inaffidabile e puttaniere, un individuo che sembra uscito dalla immaginazione di Rabelais per la forza d’urto puramente psicofisica, un maestro di vita che tuttavia non sospetta di esserlo: «Un vecchio chiodo piantato nella vita a suon di martellate», così si autodefinisce colui che dice al suo erede, con indulgente tenerezza, «Figlio mio, le miserie della vita sono la vita, e non sono miserie». Raccontando l’esistenza e i suoi trascorsi, mimandone persino la pienezza squassante, il padre intanto la elargisce nella sua plenarietà contraddittoria e, dopo tutto, la assolve. Questo è il suo insegnamento, questa la verità che il figlio riceve per procura. Ed è anche per questo che il figlio riserva proprio a lui la terza e ultima parte, liberatoria, collocandolo in quel solo paradiso accessibile agli esseri umani che, nonostante tutto, è il paradiso della realtà vissuta o recuperata, finalmente, in memoria e scrittura.

Per calcolarne il differenziale, anzi la controtendenza, basta andare al centro di un capolavoro secolare che pure si avvale dell’imprinting dantesco, i Pisan Cantos di Ezra Pound, dove è scritto: «Formica solitaria/ di un formicaio distrutto/ dalla rovine d’Europa EGO SCRIPTOR». Ma Pressburger è agli antipodi della egolatria di Pound, che monumentalizza la voce del poeta come scampato alla tragedia del secolo, come signore inconcusso delle rovine. Davvero erede di suo padre, Pressburger riceve il senso della vita come totalità e compresenza dei vivi e dei morti, come coalescenza di parti atrofiche e vitali o, insomma, come un grande corpo d’amore che sa accogliere l’inumano nell’umano, e viceversa: «Mi disse queste parole tenendomi il braccio: ‘Il punto che tu cerchi// da quando sai di vivere, è qui. Gli opposti in esso si conciliano. La saggezza con la stupidità; // la povertà con la vana ricchezza,// la fertilità con il deserto sterile; // la vita si concilia con la morte, // la pace con la guerra, // il bello col brutto, // il sopra si concilia con il sotto. Non puoi capire ora questo, certo. // C’è tutto qui solo che non lo vedi. Il punto è punto, resta invisibile’». Non a caso, tra i rari revenant del suo umile paradiso si profilano due grandi e amatissimi magnanimi quali Maimonide e Francesco d’Assisi.

Nemmeno è un caso che la trilogia si chiuda, alla maniera di un testamento, con la trascrizione del poema che celebra la vita umana come tale e non tollera eccezioni, il Cantico dei cantici che una leggenda vorrebbe attribuito alla tarda saggezza di re Salomone. Lì è scritto a un certo punto il verso sublime, e tremendo, che equipara una volta per sempre l’amore alla morte, «perché l’amore è forte come la morte»: a suo modo ne è testimonianza anche questa impresa, in ogni senso straordinaria, di Giorgio Pressburger.