L’aria densa e pesante, l’odore del fumo, il caldo penetrante. E quel ceruleo che incupisce cielo e anima. In Sardegna si impara sin da bambini a riconoscere i segni che portano un unico e devastante messaggio: il fuoco.

La cronaca degli incendi frettolosamente liquidati come estivi è sempre la stessa: a fuoco spento, si cercano le cause, si punta il dito e si polemizza fino al rogo successivo. Ma se certo le responsabilità individuali vanno accertate e il dolo punito con severità, l’incendio che ha devastato Montiferru e Planargia testimonia la vera minaccia: la mancanza politiche operative che davvero rispondano all’emergenza. O che meglio, la prevengano: «Più che Canadair servono zappe e roncole per pulire i boschi» è l’estrema sintesi del sociologo originario del Montiferru, Nicolò Migheli, esperto di sviluppo rurale e comportamento organizzativo.

Sono quasi 22 mila gli ettari arsi: foreste di lecci e roverelle, sughere secolari, macchia mediterranea, pascoli, allevamenti, vigne e decine uliveti centenari sono bruciati per giorni. Ancora questa settimana resta alta l’allerta nel Montiferru dove dalla terra calda continuano a nascere nuovi focolai. La conta dei danni non è ancora chiara, ma sono migliaia le aziende agricole che hanno perso bestiame, capannoni, fienili, scorte di foraggio, mezzi agricoli e pascoli.Alcune sono rimaste senza acqua e corrente elettrica, fiaccate dalla consapevolezza che qualsiasi ristoro non potrà restituire il patrimonio perso.

«È la terza volta che vedo bruciare la mia terra, ma mai come questa volta. Si accendeva la terra sotto ai nostri piedi», racconta Giampaolo Mura, allevatore di razza sardo modicana (Presidio Slow Food) a Santu Lussurgiu, paese tra i più colpiti: «Il bosco si era appena ristabilito dopo l’incendio del 1994. I pascoli andranno seminati, lavorati. Ci vorranno anni. Speriamo in abbondanti piogge questo autunno, ora è tutto polvere e cenere».

Giampaolo è riuscito a salvare la sua azienda, bagnando le vie e chiudendosi in stalla con il bestiame: «Pronto a intervenire ogni volta che una scintilla penetrava dalle fessure». Ma la vera salvezza è stata la cura e la pulizia con cui ha potuto prevenire il disastro: «Le misure antincendio vanno potenziate. E ci serve una legislazione che capisca bene morfologia ed esigenze del territorio. Le montagne erano abitate, ci passavano le vacche, con un sentiero potevi entrare nel bosco. Ma senza sentieri nemmeno con i mezzi di oggi si riesce a entrare».

Ed ecco il punto: «Nelle campagne mancano sempre più i presìdi umani: abbiamo rinchiuso le bestie in stalla – spiega Michele Virdis, agronomo e allevatore barbaricino -. Abbiamo importato vincoli forestali completamente fuori contesto che limitano la pulizia dei boschi, il pascolo e il presidio in genere. Abbiamo accettato le sovvenzioni in cambio del non far nulla, in primis per l’ambiente. Il risultato è evidente: la sostanza secca non utilizzata da animali e uomo è il materiale combustibile che crea gli incendi infernali, mai visti, nemmeno da un albero millenario».

A questo si aggiunge uno spopolamento che «ha portato a uno stato di abbandono anche i boschi. Sin dal Neolitico il patrimonio naturalistico della nostra isola era antropizzato. Oggi si registra un inselvaggiamento della terra» spiega Nicolò Migheli. Analisi confermate oggi dai ricercatori del Cnr dell’Istituto di Bioeconomia di Sassari che stano studiando il rogo del Montiferru:«È necessario integrare – sottolinea Valentina Becciu – le politiche forestali, quelle agricole e quelle di pianificazione urbanistica. L’agricoltura e l’allevamento sono una parte importante della soluzione perché esistono sistemi virtuosi di economia circolare che possono contribuire a ridurre la superficie di territorio a rischio.

Alcuni esempi arrivano dalla Catalogna dove ci sono pecore e capre come greggi antincendio che pascolano nelle zone vulnerabili il cui latte e formaggio, una volta in vendita, sono riconoscibili da bollini che ne certificano le buone pratiche di allevamento e l’incidenza sulla tutela del territorio. Queste politiche forse non avrebbero fermato l’incendio ma i danni sarebbero stati molto inferiori».

Intanto la rete Slow Food si è mobilitata per dare un primo soccorso agli olivicoltori colpiti. Con una raccolta informale di fondi sono state già acquistate quattromila piante di ulivo della varietà autoctona Bosana.