Prosegue a oltranza il presidio di centinaia di lavoratori della Delta Fertilizers di Talkha, 130 km a nord del Cairo, mentre restano in carcere otto degli operai arrestati nelle scorse settimane.

La protesta va avanti dal 3 dicembre, quando i dipendenti dell’azienda statale produttrice di fertilizzanti hanno lanciato un sit-in permanente contro l’annuncio di delocalizzazione della fabbrica, ferma da aprile 2020 per un incidente.

I lavoratori sono venuti a sapere dei piani di smantellamento quando a inizio dicembre una commissione guidata da un militare ha visitato la fabbrica per dei rilievi tecnici. Solo così hanno scoperto che il governatore della provincia aveva messo in vendita i terreni su cui sorgono gli stabilimenti, circa 100 ettari, per fare spazio a un grande quartiere residenziale, e hanno immediatamente deciso di accamparsi giorno e notte nello stabilimento.

La direzione aziendale però ha rifiutato qualsiasi confronto con gli operai, lasciando che a rispondere alle loro rivendicazioni fosse direttamente la polizia del regime.

La stretta repressiva è arrivata a capodanno: alcuni degli esponenti della protesta sono stati arrestati in casa, dove erano tornati per mangiare con le proprie famiglie. Secondo fonti locali, in un caso durante l’irruzione le forze di sicurezza avrebbero sequestrato per alcune ore il fratello e il figlio di uno dei lavoratori per convincerlo a consegnarsi.

Il portale indipendente Mada Masr riferisce che dei 13 arrestati 5 sono stati rilasciati e altri 8 sono comparsi davanti alla Procura della Sicurezza di stato del Cairo, che ha prorogato di altri 15 giorni la loro detenzione. Si tratta di otto sindacalisti, tutti esponenti della rappresentanza di fabbrica.
Negli ultimi giorni dentro gli stabilimenti di Talkha si sono mossi diversi cortei contro la mancata liberazione degli arrestati. Nelle trattative con la polizia i lavoratori avevano promesso di smobilitare parzialmente il presidio in cambio del rilascio dei compagni incarcerati ma per tutta risposta è stato intensificato lo schieramento di forze dell’ordine all’esterno della fabbrica, e tra i partecipanti al presidio comincia a diffondersi il timore di un’irruzione.

I dipendenti dell’azienda, che impiega circa 2.500 persone e ha un indotto che arriva a 7mila lavoratori, chiedono che la fabbrica venga rimessa in funzione e contestano la delocalizzazione della produzione a Suez, a 250 km di distanza, dove secondo il Centro servizi per i sindacati e i lavoratori (Ctuws), ong con sede al Cairo, solo alcune centinaia di dipendenti sarebbero ricollocati.

La decisione è stata giustificata ufficialmente con motivi ambientali: la fabbrica, sorta alla fine degli anni ’60 si trova oggi in una zona densamente abitata. Gli operai in mobilitazione però rispondono che gli impianti sono stati adeguati appena tre anni fa agli standard richiesti, grazie a investimenti per un valore di quasi 8 milioni di euro, con tanto di certificazione del ministero dell’Ambiente.

Secondo i lavoratori inoltre la delocalizzazione risulterebbe in una grave perdita economica, perché molti macchinari non possono essere trasferiti.

Il dito è puntato contro i piani di sviluppo edilizio previsti nell’area, teoricamente destinata a progetti di housing sociale per gli abitanti dei quartieri informali, che il regime di al-Sisi ha deciso di smantellare. «È illogico chiudere una fabbrica e spostare i lavoratori per fare spazio a un complesso residenziale», aveva dichiarato al giornale Al-Masry Al-Youm il sindacalista Mohammed Gadu, arrestato nelle retate di fine dicembre.

L’agitazione intanto si sta allargando anche ad altre aziende del settore pubblico, minacciate in questi mesi da un vasto piano di dismissioni, fusioni e privatizzazioni. A fine dicembre centinaia di operai hanno lanciato un presidio negli stabilimenti tessili di Kafr el-Dawwar, vicino Alessandria, contestando i piani di demolizione degli impianti, anche lì per fare posto a progetti edilizi. G

li operai hanno inscenato un funerale simbolico di quella che è una delle più importanti e antiche industrie del paese, nonché storico centro di conflittualità operaia.

Da cinque giorni sono in sciopero centinaia di operai dell’industria dell’alluminio di Nag’ Hamadi, nell’Alto Egitto, che contestano il nuovo regolamento per il personale delle aziende pubbliche e il mancato pagamento dei bonus di produzione annuali, a causa delle enormi perdite registrate lo scorso anno.

Forte clamore ha poi suscitato lunedì l’annuncio choc della liquidazione della Iron and Steel di Helwan, la più antica e grande industria metallurgica del mondo arabo, con oltre 7mila operai, duramente criticata persino dal sindacato filo-governativo Etuf. «Questa industria non appartiene al governo, ma a tutto il popolo egiziano», ha commentato Kamal Abbas, coordinatore del Ctuws.