Il melodramma post-elettorale afghano si arricchisce di un nuova, clamorosa puntata. Si è dimesso infatti il segretario della Commissione elettorale, l’organismo che ha gestito i due turni delle presidenziali e a cui ora spetta il conteggio dei voti. Si tratta di una vittoria parziale per Abdullah Abdullah, l’ex ministro degli Esteri candidato alla presidenza. Nei giorni scorsi Abdullah (suoi sostenitori in piazza a Kabul, foto reuters) aveva accusato alcuni membri della Commissione di aver favorito il suo sfidante, l’ex ministro delle Finanze Ashraf Ghani, con una truffa «su scala industriale». E da giorni chiedeva con forza proprio il licenziamento di Ziaulhaq Amarkhil, il segretario della Commissione, nominato lo scorso agosto dal presidente uscente, Hamid Karzai. Amarkhil ha negato ogni addebito fino a quando sono state rese pubbliche alcune intercettazioni telefoniche che sembrano avallare le accuse contro di lui. Poi ha ceduto, sotto pressione, pur ribadendo la sua imparzialità e negando l’autenticità delle intercettazioni.

Le dimissioni di Amarkhil dimostrano che le elezioni afghane sono state tutt’altro che trasparenti, delegittimano il processo elettorale e non risolvono del tutto l’impasse politica. Qui a Kabul i sostenitori di Abdullah continuano a protestare per strada, anche se meno convinti di prima. Sui social network i toni continuano a essere infiammati, tanto che il gabinetto del presidente ha discusso l’eventualità di bloccare Facebook per alcuni giorni. È tornato a parlare anche Ashraf Ghani, fin qui prudentemente in silenzio: «Non abbiamo niente a che fare con il caso Amarkhil», ha detto Ghani, «e respingiamo al mittente l’accusa che abbia lavorato per noi». L’ex ministro delle Finanze ha poi invitato Abdullah e il suo team a riconoscere che in ogni elezione «c’é qualcuno che vince e qualcun altro che perde» (il sottinteso è che Ghani abbia vinto), augurandosi che la Commissione elettorale possa annunciare i risultati preliminari il prima possibile. Ghani è tornato a chiedere di fare chiarezza sulle fonti delle intercettazioni telefoniche, «una pratica illegale secondo l’articolo 37 della Costituzione». Qui a Kabul molti puntano il dito verso Amrullah Saleh, l’ex capo dei servizi segreti che sostiene la candidatura di Abdullah.

Torna in scena Karzai

La crisi innescata da Abdullah Abdullah sembra intanto aver prodotto, al di là delle proteste per le vie della capitale, un effetto sicuro: il ritorno in scena di Hamid Karzai. Accusato dal candidato in odore di sconfitta di non essere stato neutrale, il presidente afgano inizialmente non ha reagito, se si esclude una nota di palazzo che ne riaffermava il ruolo super partes. Poi ha avuto parole morbide verso entrambi i rivali, definiti personalità che meritano rispetto.

Infine domenica scorsa, in un incontro col Consiglio degli Ulema, ha derubricato lo scontro tra candidati a pura dialettica elettorale. Nessuna scomunica insomma e un comportamento da vero arbitro della nazione. Quanto alle dimissioni di Amarkhil, Karzai le ha accettate di buon grado definendole un «atto responsabile» in grado di «normalizzare» la situazione. Dalle parole poi è passato ai fatti e lunedì ha istituito una «delegazione speciale» incaricata di trovare ogni possibile via d’uscita. La notizia l’ha data il Procuratore generale Ishaq Aloko che si è augurato di non dover ricevere nessuna comunicazione che attivi i suoi uffici e che anzi proprio la delegazione, sulla cui formazione ancora non si sa molto, potrebbe essere la chiave per evitare di tirare in ballo anche la magistratura.

Con l’ultima mossa Karzai ha così riaffermato nei fatti la sua imparzialità, accogliendo con saggezza alcune delle richieste di Abdullah e si è ritagliato addosso l’abito del salvatore della patria neutrale, proprio in un momento in cui gode di un consenso minimo. Karzai peraltro sa che nessuno, oltre ad Abdullah, vuole fermare il processo elettorale a cominciare dagli Stati uniti per finire con l’Onu, che ieri ha favorito un incontro tra i membri della Commissione elettorale e il team di Abdullah. Il fallimento delle elezioni sarebbe infatti anche il loro. Non di meno c’è chi sospetta che tutto quanto accada sia addirittura una strategia di Karzai per rimanere in sella, a capo di un governo ad interim che indìca nuove elezioni se queste dovessero rivelarsi illegittime. E che lo siano sono in molti invece a pensarlo: «La cattiva notizia – dice un noto intellettuale – è che nessuno dei due candidati è a posto e, se non si torna al voto, la comunità internazionale e gli afgani avranno a che fare con un presidente eletto con la frode attraverso una commissione che la frode l’ha addirittura organizzata».