Pace nel centrodestra, guerra in Forza Italia. Berlusconi è a Roma, nella residenza di villa Grande e si è portato dietro anche l’adorato Dudù il barboncino bianco. Francesca Pascale non c’è più, Dudù è rimasto: affido condiviso. Per il pomeriggio il Cavaliere ha in programma un’incursione a Montecitorio per l’elezione del nuovo capogruppo in sostituzione di Roberto Occhiuto, eletto presidente della Calabria. Le cose non andranno però come previsto e il signore d’Arcore resterà col barboncino.

IL PRANZO CON MATTEO e Giorgia fila liscio. Coraggio Italia, la quarta gamba, anzi la zampetta, non è stata invitata e la prende male. «Si riparte col piede sbagliato», sibila Osvaldo Napoli. Dopo la mazzata si dovrebbe discutere di come ripartire invece col piede giusto, magari anche chiedersi, come prometteva di fare sorella Giorgia, se si possa andare avanti con posizioni diverse sul governo. La faccenduola viene invece sbrigata di corsa. In fondo il risultato pessimo attenua le tensioni, essendo i duellanti, Salvini e Meloni, usciti entrambi a pezzi. I convitati concordano sulla necessità, la prossima volta, di individuare i concorrenti in anticipo e non all’ultimo secondo. Magari anche «più all’altezza» dei brocchi sbaragliati a questo giro. Stabiliscono che d’ora in poi sarà d’uopo vedersi una volta alla settimana, giusto per fare il punto e concordare le mosse, e chissà se ai prossimi pranzi le cenerentole di Coraggio Italia troveranno posto.

POI SI PASSA ALLE COSE serie, cioè all’elezione del capo dello Stato. Berlusconi è da giorni attivissimo: vuole che nelle prime votazioni il suo nome venga letto a ripetizione, al momento dello scrutinio. Punta davvero al Colle? Non lo sa neppure lui. Dipenderà da quanti saranno i voti in quelle prime votazioni: se vedrà uno spiraglio ci si infilerà di corsa. Ma il capitale in voti gli serve comunque. È grazie a quel gruzzolo che potrà sedersi al tavolo ed entrare in partita in veste di king maker. Non che abbia già un nome in mente, in fondo spera davvero che tocchi a lui e sarebbe una bella rivincita su chi lo ha cacciato dal Parlamento. Però, tra una chiacchiera e l’altra, ci scappa anche l’ipotesi Draghi ma senza scioglimento delle Camere, con Il ministro Franco a palazzo Chigi. Almeno a parole nessuno dei tre si dice pregiudizialmente contrario

L’INTESA, MESSA NERO su bianco nel comunicato finale, è che nella partita del Colle i tre partiti si muoveranno all’unisono. Meloni però ci tiene a ufficializzare un altro particolare: i tre partiti non sosterranno comunque una riforma elettorale proporzionalista. A Fi il proporzionale converrebbe, alla Lega ormai anche. Ma Berlusconi ha bisogno di tutti i voti per il Colle e non fa storie. Anche l’impegno contro il maggioritario finisce nel comunicato.

PROBABILMENTE per lo stesso motivo, i voti per il Colle, il sovrano ha deciso di sostenere come capogruppo un anonimo, Paolo Barelli, però molto vicino a Tajani. L’ala governista, capitanata dai tre che del governo fanno parte, Brunetta, Carfagna e Gelmini, si ribella, minaccia l’ammutinamento, tiene duro su un berlusconiano doc come Giacomoni. Una lettera con 26 firme è già stata consegnata al capo chiedendo il voto a scrutinio segreto, una specie di bestemmia nel partito azzurro dove si è proceduto sempre per acclamazione. Ufficialmente il problema è un po’ di metodo, essendo stato l’illustre sconosciuto paracadutato dall’alto, e un po’ politico, essendo reputato distante dai governisti. In realtà la posta in gioco è più terragna: il capogruppo avrà voce in capitolo nella composizione delle liste e quanto a lacerazioni interne le correnti del ruscello azzurro non hanno nulla da invidiare a nessuno.

BERLUSCONI NON GRADISCE la sorpresa e neppure l’ammutinamento. È sempre il monarca e comunque non vuole litigare con Tajani proprio alla vigilia della battaglia del Colle. S’impone e i ribelli si piegano: Barelli viene acclamato. Poi però la ministra Gelmini impugna il lanciafiamme. «A Berlusconi è stato raccontato che siamo draghiani e non berlusconiani, che siamo venduti. Da sei mesi la delegazione al governo è esclusa dal tavolo con Berlusconi», tuona rivolta ai deputati. Prosegue rincarando: «Invece proprio perché amiamo Fi non ci rassegniamo al declino. Se non vogliamo che si riduca a dieci eletti la linea deve essere quella di Carfagna. Il tempo del populismo è finito». Sembra quasi un addio. Non lo è. Fino all’elezione del presidente non succederà niente. Poi però tutto sarà possibile.