C’è una ferrovia arrugginita e malconcia che collega Nis a Presevo. Un cimelio della Jugoslavia degli anni Sessanta nel cuore dimenticato della Serbia del sud. Il treno costeggia lento le acque della Juzna Morava ingrossate dalla pioggia. Dal finestrino lo puoi vedere fotogramma dopo fotogramma il passaggio dalle terre slave a quelle albanesi. Via via scompaiono le cupole a cipolla delle chiese ortodosse, tra le colline lussureggianti si iniziano a scorgere i minareti.

Presevo, un pugno di case e strade sterrate stretto in una conca. E’ il più grande dei tre comuni che formano l’omonima Valle a maggioranza albanese, ultimo pezzo di Serbia prima del contestato confine con il Kosovo. Da quasi un anno quel confine si pensa di spostarlo più a Oriente, a inglobare la Valle. In cambio però di un ritocco al Kosovo del nord, mutilato di quattro comuni abitati per lo più da serbi – Mitrovica, Leposavic, Zubin Potok, Zvecan – che ritornerebbero a Belgrado. Voci, indiscrezioni, non detti che fanno risuonare un’eco potente nella valle irredenta, risvegliando sogni di riunificazione mai sopiti.

Agron, 33 anni, divora una porzione di cevapcici noncurante del digiuno imposto dal Ramadan. Sul suo faccione, appeso al muro, il quadro in tela di due coppie, una di uomini e una di donne, in abiti tradizionali albanesi, stretti in un abbraccio. «Sono stato dappertutto all’estero, attacca Agron. Svizzera, Germania, ovunque. Non c’è lavoro qui.

Le industrie si fermano a Vranje (ultimo comune prima della Valle, ndr)». All’idea che un giorno Presevo possa far parte del Kosovo, Agron si frega le mani come chi sta per fare un buon affare. «Con la cittadinanza kosovara potresti avere più difficoltà a viaggiare, ci hai pensato?». Scuote la testa infastidito. Sì che ci ha pensato. I suoi amici kosovari non aspettano altro che la liberalizzazione dei visti per scappare via da quel buco nero di corruzione e disoccupazione in cui sono intrappolati. «Siamo fratelli di sangue, taglia corto, abbiamo la stessa cultura, parliamo la stessa lingua».

Oltre le parole, la dura realtà. Quella ad esempio di Medvedja, uno dei tre comuni della Valle, che ha visto migrare oltre due terzi della popolazione negli ultimi cinquant’anni. Zero sviluppo, zero investimenti. La Valle di Presevo resta l’area più povera e isolata della Serbia. Eppure non c’è alcuna convenienza a passare dall’altra parte. Basta guardare a salari, pensioni, ospedali, scuole. Solo il sogno resta, quell’abbraccio a lungo agognato tra fratelli albanesi di tutta la regione.

Lo stesso sogno di Ibrahim Kelmendi, il professore originario di Presevo che aveva combattuto tra le fila del Balli Kombetar, movimento anti-comunista e nazionalista che aveva collaborato con i nazisti durante la seconda guerra mondiale. A lui è intitolata la scuola della città, quasi a ribadire quell’aspirazione alla creazione di un’Albania unita, ancora presente tra gli abitanti di Presevo.

Da quando si è ricominciato a parlare di modifiche ai confini, si sono susseguite le voci di un intervento militare della Serbia nel Kosovo del nord. Da febbraio l’esercito sfila tra Kraljevo e Novi Pazar almeno due volte al mese. Tra le aree interessate c’è anche la Valle di Presevo dove Belgrado (quasi in risposta alla base Usa di Camp Bondsteel in Kosovo), ha installato la più grande e moderna base militare serba a pochi chilometri da Kosovo e Macedonia del Nord.

«Giochi politici». La liquida così Nikola, giornalista serbo di un portale di informazione locale. «La verità, prosegue, è che un intervento militare sarebbe un suicidio per la Serbia». A poco serve l’aumento delle spese militari deciso dal governo di Belgrado, +38% nell’ultimo anno. Dall’altra parte la sola presenza della Nato è sufficiente a trattenere ogni tentativo di sconfinamento delle truppe in Kosovo.

«I serbi, chiosa amaro Nikola, aspettano silenziosamente il giorno in cui dovranno andare via. Gli albanesi aspettano che quel giorno arrivi. Questa è la normalità a Presevo». All’epoca in cui i Balcani avevano iniziato a ribollire, Shqripim Afiri era ancora un bambino. Suo padre si era precipitato a Presevo dalla Germania dove era immigrato negli anni Sessanta alla ricerca di un lavoro. Era il 1992 quando suo padre aveva fatto ritorno alla terra natìa. I comuni della Valle avevano indetto un referendum. Autonomia territoriale e politica, e diritto di unirsi al Kosovo, era la richiesta divenuta plebiscito.

«A quei tempi era rischioso essere attivi in politica, eppure c’era stata una grande mobilitazione, ricorda Afiri, ritto sulla poltrona del suo ufficio da sindaco del comune di Presevo. Allora il Kosovo era ancora una provincia della Jugoslavia. Poi divampò la guerra nei Balcani e le ultime fiamme si alzarono qui. L’incendio lo aveva appiccato l’esercito di liberazione di Presevo Medveda Bujanovac (Ucpmb). Erano passati quasi dieci anni dal referendum. Mai la Valle di Presevo fu così vicina alla guerra. Ma poi sono intervenuti i signori della Comunità internazionale. Ed è stata la tregua e poi l’accordo.

Oggi la Valle di Presevo è una pedina nella partita dei tre leader che giocano a spartirsi i Balcani. Il presidente kosovaro Hashim Thaqi, quello serbo Aleksandar Vucic e il premier albanese Edi Rama. Leadership corrotte, impunite e sempre più indebolite dal malcontento dei cittadini. Leadership che vedono allontanarsi la prospettiva dell’ingresso in Ue e calano così la carta del nazionalismo pur di rimanere saldi al potere.

In questa partita Afiri è intenzionato a trattare. «Con gli altri sindaci (di Bujanovac e Medveda) abbiamo elaborato una posizione comune e posto tre condizioni. Primo, la Valle di Presevo non può essere divisa: dovrà ricadere integralmente o nel Kosovo o nella Serbia. Secondo, non siamo favorevoli allo scambio di territori. Non vogliamo che il Kosovo perda pezzi per inglobare i nostri comuni. Terzo, senza il sostegno della Comunità internazionale non si va da nessuna parte».

Tre condizioni impossibili dietro cui si cela il tentativo di Afiri di sfruttare le congiunture del momento a proprio vantaggio: «La discussione per noi è importante perché dalla fine della guerra la Valle è caduta nel dimenticatoio ed è un bene che si faccia luce sulle condizioni in cui versa la nostra terra». E infatti i soldi non sono tardati ad arrivare. Con Tirana ad esempio si sta trattando il finanziamento di un fondo per la solidarietà nazionale destinato allo sviluppo economico della Valle.

Ma, avverte il sindaco, una cosa è discutere l’accordo, altra cosa è realizzarlo. Gli equilibri sul terreno sono tali da vanificare ogni tentativo che vada in questa direzione. «Il dibattito è artificiale. Lo scambio sarebbe un fattore di destabilizzazione per la regione e non solo» incalza Afiri che in un passaggio successivo però rivendica il diritto della Valle a unirsi al Kosovo.

Un ragionamento contraddittorio, a dir poco. «Certo, sto cercando di dire tutto e niente. E non posso fare altrimenti, confessa, le conseguenze possono essere gravi». Non specifica il sindaco quali potrebbero essere queste conseguenze, ma il rischio è che si proceda a una soluzione di forza che ponga in essere l’accordo sul campo. Il tempo è ora. Dopo le forse annullate elezioni amministrative in Albania del 30 giugno e prima dell’insediamento della Commissione europea a ottobre. L’estate calda dei Balcani è appena cominciata.