«Siete tutti degli antisemiti». Un giovane colono israeliano lancia un’accusa infamante al passaggio di giornalisti e diplomatici europei in visita alla famiglia palestinese al Sabbagh minacciata di sgombero. Gli chiediamo il perché di quell’insulto privo di senso. «Siete degli antisemiti perché venite ad ascoltare le falsità dei palestinesi ma qui è tutto nostro, Gerusalemme è tutta nostra, Eretz Israele è tutta nostra». Non si calma e insiste con la sua assurda accusa. «Siete antisemiti perché la Corte suprema (israeliana) ha sentenziato che quelle case appartenevano ad ebrei e agli ebrei ora stanno tornando», ci dice abbandonando la sua postazione a guardia di uno degli appartamenti in cui vivevano palestinesi e occupato qualche anno fa da una famiglia israeliana legata agli ultranazionalisti religiosi. Dopo aver sfogato la sua rabbia torna al suo posto senza degnare di uno sguardo gli stranieri che gli passano accanto. In alto, un’altra guardia di sicurezza dei coloni, armata di mitra, segue con attenzione quanto accade.

Mohammed Sabbagh, 70 anni e “portavoce” di cinque fratelli e di altrettante famiglie in attesa dello sgombero da parte della polizia, osserva la scena. Poi fa strada alla delegazione di diplomatici europei giunti ad ascoltare le ragioni di chi nel giro di pochi giorni finirà in mezzo a una strada. «La nostra famiglia vive qui da 62 anni – ci dice – i più anziani sono profughi o figli di profughi (della guerra del 1948, ndr) giunti da Giaffa. Perdemmo tutto nel 1948, Israele ci confiscò le proprietà. Nel 1956, in accordo con l’Unrwa (Onu) i giordani (che a quel tempo controllavano Gerusalemme Est, ndr) assegnarono 28 appartamenti ad altrettante famiglie palestinesi, inclusa la nostra. Ora, tanti anni dopo, ci dicono che le case appartenevano ad ebrei e ci cacciano via. Siamo 45 persone, tra cui anziani e bambini, e non ci muoveremo muoverci da qui, dovranno usare la forza».

Siamo a Sheikh Jarrah. Sul tetto di edifici situati più in alto della casa dei Sabbagh sventolano le bandiere di diversi consolati occidentali e di alcune agenzie umanitarie. I Sabbagh vivono nella parte bassa e più popolare di Sheikh Jarrah. Qui da una ventina di anni si concentrano le attività delle “società immobiliari” che fanno capo alle organizzazioni dei coloni impegnate nella “(ri)conquista” della zona Est di Gerusalemme. Tutto è cominciato con il restauro, proprio sotto le case, della tomba di Shimon Tzaddik, un santo ebreo. Per anni gli haredim, gli ultrartodossi, pregavano sulla tomba di Shimon. Tutto filava liscio, senza problemi. Poi sulla scena sono entrati i nazionalisti religiosi ed è cambiato tutto. Nel 2003 si seppe che le terre dove sorgono le case erano registrate a nome di israeliani e che erano state vendute dai “proprietari” alla Nahalat Shimon, una società immobiliare di coloni registrata oltreoceano. Grazie alle sentenze della Corte suprema e a documenti risalenti in parecchi casi all’inizio del secolo scorso, nel 2009 tre famiglie palestinesi sono state costrette ad abbandonare le loro case.

I diplomatici europei ascoltano il racconto delle ultime fasi di un procedimento giudiziario durato oltre dieci anni e che i Sabbagh all’inizio credevano di poter concludere positivamente. Invece è andata come quasi sempre in questi casi, hanno vinto i coloni. «La Corte suprema a novembre ha sentenziato contro di noi – prosegue Mohammed Sabbagh-, e il 12 gennaio ci hanno consegnato l’ordine di sfratto – prosegue Mohammed Sabbagh – e intimato di uscire dalle nostre case entro il 23 gennaio. I nostri avvocati sono riusciti a far congelare lo sgombero fino a quando non sarà presa una decisione definitiva entro un mese. Ma sappiamo che la sentenza non sarà modificata». Nell’appartamento accanto c’è Ramziyeh Sabbagh, 31 anni, in attesa di partorire e perciò accudita dalle altre donne della famiglia. I diplomatici lasciano la casa. Una anziana, tra un pianto sommesso e con una voce flebile, come se non volesse turbare gli ospiti stranieri, li attende all’uscita e ripete più volte che il mondo non può chiudere gli occhi di fronte a tutto questo.

Il commento di Mohammed Sabbagh è un misto di rabbia e amarezza: «Gli israeliani dicono che queste case appartenevano ad ebrei, ok prendetele ma ridateci le case e le terre che ci avete confiscato e noi andremo a vivere lì, sarebbe uno scambio giusto». Ma impossibile. La legge dei “presenti-assenti” (Absentees Property Law) approvata nel 1950 dal Parlamento del neonato Stato di Israele sancisce che lo Stato ha il diritto di confiscare le proprietà di un palestinese che non era fisicamente presente nella sua casa in un certo momento della guerra del ‘48. Uomini e donne fuggiti o cacciati via con la forza o che erano semplicemente sfollati a causa della guerra. Assenti dalle loro case ma presenti in Israele tanto da ricevere la cittadinanza. Sono due milioni di persone, contando anche i palestinesi di Gerusalemme. Pagano le tasse, hanno in tasca il passaporto israeliano ma non possono riottenere le loro proprietà immobiliari, anche a Gerusalemme Ovest, assegnate dopo il 1948 a cittadini ebrei. La legge consente di reclamare le case appartenute ad ebrei prima della nascita di Israele, anche se ora vi abitano dei palestinesi da decenni. Invece un palestinese non può fare altrettanto con le sue proprietà registrate prima del 1948. I Sabbagh dopo lo sgombero non potranno andare alle loro abitazioni a Giaffa, semplicemente finiranno in strada.