Da professore, Giuseppe Conte ebbe Alfonso Bonafede come assistente all’Università di Firenze. Adesso, da presidente del Consiglio, dichiara di appoggiare l’iniziativa più contestata dell’allievo nel frattempo diventato ministro della giustizia: lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado che scatterà dal prossimo primo gennaio. Contestatissimo non solo dagli avvocati penalisti, ma da tutta la maggioranza, 5 Stelle esclusi. «Non c’è nessun particolare allarme» per la nuova norma sulla prescrizione, «anche se i tempi della giustizia dovessero ritardare, la norma sulla prescrizione si applicherà ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della norma stessa, quindi sopo gennaio 2019», dice il presidente del Consiglio nel corso di una visita alla redazione dell’Adnkronos.

Conte, cioè, mette in preventivo che i tempi dei processi penali siano destinati ad allungarsi, una volta che dopo la sentenza di primo grado non ci sarà più lo stimolo della prescrizione a spingere le udienze, ma avverte che gli effetti si vedranno solo tra qualche anno. Il che equivale a dire che ci sarà bisogno di introdurre novità per accelerare i tempi della giustizia assai più incisive della povere misure tampone escogitate fin qui da Bonafede nella bozza di legge delega di riforma del processo penale, e che il Pd e gli altri partiti della coalizione stanno bloccando proprio perché chiedono in cambio una correzione della disciplina della prescrizione. In assenza di misure in grado di diminuire davvero i tempi delle udienze, bisognerà inevitabilmente mettere mano alla sostanziale cancellazione della prescrizione su cui insiste il ministro della giustizia. Prima o poi. Con il rischio concreto di moltiplicare per tre i regimi di estinzione dei reati: un caos.
Ieri Conte, che nelle ultime settimane ha ospitato a palazzo Chigi due improduttivi vertici di maggioranza sulla giustizia, ha preso ufficialmente le parti di Bonafede: «La riforma è nei punti programmatici della maggioranza ed è fortemente voluta anche dal presidente del Consiglio», cioè da lui. Il vice segretario Pd ed ex ministro della giustizia Orlando, autore di una precedente riforma della prescrizione che i grillini hanno fermato, aveva spiegato al contrario che la riforma Bonafede è frutto della vecchia intesa con la Lega e che dunque il Pd non avrebbe avuto scrupoli a fermarla. Anche votando con le opposizioni.

Ma se le uscite del presidente del Consiglio possono, un po’ a fatica, essere interpretate dal Pd come un segnale di attenzione in vista di una mediazione considerata inevitabile, le parole di Luigi Di Maio assomigliano senza dubbio a un dito in un occhio. Il capo politico del M5S torna a paragonare il Pd alla Lega, raccontando la vicenda della prescrizione a modo suo, tacendo ad esempio sul fatto che era stato proprio Bonafede ad acconsentire di differire di un anno l’applicazione della riforma per approvare nel frattempo norme in grado di sveltire i processi. «Mi aspetto che la musica sia cambiata», dice Di Maio al Pd, al quale polemicamente ricorda antiche posizioni (epoca berlusconiana) in effetti in favore di una soluzione draconiana sulla prescrizione, simile a quella difesa dai grillini.

Nel frattempo monta la protesta degli avvocati penalisti, che ieri hanno annunciato cinque giorni di sciopero, dal 2 al 7 dicembre, accompagnati da una maratona oratoria dalle 9 alle 20 tutti i giorni davanti alla Cassazione. Per difendere, ha detto l’avvocato Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, «il diritto di tutti i cittadini, imputati e parti offese, di non rimanere in balia di un processo infinito».