Nell’introduzione a Lector in fabula (1979) Eco afferma di voler studiare l’«attività cooperativa che porta il destinatario a trarre dal testo quel che il testo non dice (ma presuppone, promette, implica ed implicita)». Ciò postula una materia testuale densa (a livello semantico, figurale e strutturale) e un lettore in qualche misura competente nell’interpretare i segni ramificati della scrittura. Queste due condizioni, secondo Walter Siti in Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, pp. 272, euro 14), sono venute meno.

L’AUTORE NE OSSERVA le conseguenze, com’è naturale per un critico formatosi nella scuola di Francesco Orlando, a partire dai sintomi stilistici del testo: il canone è composto da autori per lo più italiani molto discussi (Saviano, Murgia, Carofiglio su tutti), oggi diventati un caso. Questi avrebbero (più o meno consapevolmente) abdicato dalla parola letteraria in nome di ciò che Siti chiama «neo-impegno», un’attività di scrittura contenutistica e orientata all’efficacia etica immediata, che rinuncia al lavoro sulla lingua e che tende a diventare maggioritaria: tematiche ripiegate sull’attualità (trionfa il vittimismo e tutto il suo repertorio), figuralità convenzionale (metafore e anafore enfatiche, poco altro), sciatteria sintattica, personaggi manichei, trame melodrammatiche, truismi. Un’assenza di progetto formale solo apparente: il testo è neutro per arrivare a quante più persone possibili e per essere disponibile alla traduzione, frammentabile nei diversi media digitali. Dev’essere webbabile, come si esprime Siti: «l’arte non è più… un filtro che trattiene l’essenziale della cronaca e lo complica…ma piuttosto…un altoparlante che fornisce alla cronaca un maggior potenziale persuasivo e di memoria».
Si tratta di una mutazione (l’autore insiste sul sostantivo pasoliniano) che investe non solo i testi letterari ma anche la critica, se Alexandre Gefen intitola il suo saggio sulla letteratura contemporanea Réparer le monde, e constata che essa è diventata, nientemeno, «una macchina per fabbricare rassicurazione».

COME ALTRI ORIENTAMENTI critici contemporanei, la visione di Gefen è tutta concentrata sull’utilità positiva della letteratura per la vita umana: che farsene allora dell’aspetto perturbante della letteratura, delle identificazioni ambivalenti?, di Dimitrij Karamazov, di Humbert Humbert, di Max Aue?

Il libro, composto da saggi usciti autonomamente negli ultimi tre anni e provvisto di un’efficace cornice introduttiva e conclusiva, ha un tono pamphlettistico che forse non è in grado di esaurire la complessità del problema, sebbene abbia il merito di porlo con elegante vis polemica. L’impeccabile analisi stilistica dei testi è funzionale ad un ragionamento che ha ampissimi riverberi nelle agenzie che definiscono lo statuto simbolico della letteratura, cioè nel campo della sociologia della letteratura. E qui mi sembra che si giunga (un po’ troppo rapidamente) a conclusioni apocalittiche a partire da preoccupazioni critiche valide, ma che meriterebbero un dibattito.
La questione più controversa riguarda la sopravvivenza della letteratura (e in particolare della sua profondità), minacciata dalla prevalenza soffocante della sua versione cattiva. Al netto del canone scelto, che non è esaustivo (sebbene sia significativo per selezione critica, anche in questo caso meritoria di una discussione), le opere della «grande» letteratura (il testo ben fatto, unitario, coerente) e gli strumenti della «grande» critica (per intenderci, l’armamentario del miglior strutturalismo), nella visione di Siti sembrano la letteratura.
E tuttavia, com’è ovvio, essi sono storicamente determinati, una delle forme, per quanto esteticamente e intellettualmente altissima, che la letteratura può assumere. È la forma novecentesca (determinata economicamente non meno di molti prodotti culturali contemporanei) di una configurazione dei saperi borghese in via di trasformazione. E se la letteratura riuscisse a trovare, sia pure nel frammento e nella superficie, una sua vitalità?