In Mumbo Jumbo di Ishmael Reed, ambientato nei ruggenti anni ’20, è difficile non fare il tifo per i mu’tafikah, guerriglieri dionisiaci che rubano dai musei occidentali le opere d’arte sottratte al sud del mondo per restituirle ai discendenti dei legittimi proprietari, quando non direttamente alla loro funzione originaria. Sembra fantascienza e in effetti lo è. Come tale resta ancora oggi l’ipotesi di una restituzione dei patrimoni culturali e simbolici altrui, rapinati dalle ex potenze coloniali come bottino di guerra o tramite acquisizioni criminose, prossime alla ricettazione. Al netto dei singoli bei gesti, oltremodo sofferti – si pensi ai ritardi e ai mal di pancia italiani quando si è trattato di riportare in Etiopia la stele di Axum – e sempre finalizzati a un qualche tornaconto.

La questione ovviamente non riguarda solo l’Africa, né coinvolge solo la vecchia Françafrique… Ma qui parliamo del 90% delle opere più importanti che si trova sparpagliato tra Europa e Stati uniti, in musei e collezioni private.

Contro l’etica della restituzione si obietta sugli eventuali destinatari o peggio, si denuncia un attentato all’universalismo che invece verrebbe garantito mantenendo questi oggetti dove sono. Un universalismo molto presunto, che non considera mai il potenziale utilizzatore finale, non uno stato o un despota qualsiasi, ma un’intera comunità. Il ragazzino del Benin a cui un giorno venisse voglia di “toccare con mano” ciò di cui sono stati capaci i suoi antenati, avrebbe solo due possibilità: il Quai Branly a Parigi o internet.

 

L’economista, drammaturgo e musicista senegalese Felwine Sarr

 

 

 

Ora, che sia per lenire i sensi di colpa post-coloniali o meno, una soluzione andrebbe cercata e dovrebbe essere più artistica che meccaniscistica, improntata alla condivisione e a una giusta prospettiva storica. Il rapporto voluto da Macron può essere un inizio, se funzionasse almeno come catalogo, con annotate accanto a ogni pezzo le strade seguite per giungere in quella teca. Non è fantascienza, al massimo è Afrotopia, come recita il titolo di un breve saggio di Felwine Sarr, uno degli autori del rapporto, impegnato con il filosofo camerunense Achille Mbembe ad «articolare un pensiero che affronti il destino del continente africano, osservandone la politica, l’economia, il sociale, il simbolico, la creatività artistica ma anche identificando quei luoghi da cui vengono enunciate nuove pratiche e nuovi discorsi in cui si elabora l’Africa che sta per arrivare».

Come accade quando si immagina un futuro, il passato ha il suo peso e non è mai giusto dimenticarlo.