Iniziato nel peggiore dei modi partendo da Gerusalemme, una città che dovrebbe essere finalmente lasciata in pace, ormai sapete tutti che il Giro d’Italia 2018 è finito nella più triste e buffa tappa-passerella che si potesse avere, a Roma. Mi ero ripromesso di ignorare questa gara, che già di suo non m’interessa granché proprio per la sciagurata scelta della partenza, ma la protesta dei bamboccioni che corrono in bici, spaventati dalla scarsa sicurezza del percorso, mi costringe ad approfittare di questa eccezionale buffonata. Il plotone ha chiesto e ottenuto di far staccare il cronometro al terzo giro, spaventato dalle asperità stradali romane. Già la cosa di suo è comica (i bamboccioni di cui sopra a volte corrono la Parigi-Roubaix, 250 km di puro panico su lunghi tratti di basolato malamente sconnesso), ma al tremore dei giovanotti agonisti si aggiunge il retrogusto di beffa di chi si muove ogni giorno in bici sulle strade romane. Niente retorica del ciclista eroico, niente orgoglio per fare parte di una piccola fetta di società che se la vede col diavolo ogni giorno: mi piacerebbe puntare l’attenzione sul solito non detto di questa vicenda e più in generale della vicenda «le strade di Roma».
Prima però, a pochi giorni dal fattaccio, mi piace notare alcune cose. La prima: su nessuna prima pagina dei giornali sportivi, né nelle home page dei relativi siti, c’è un pezzo sulla neutralizzazione della tappa (ovvero stop al cronometro dal terzo giro sui 10 previsti); lo stesso anche sul sito ufficiale del Giro d’Italia né su quello della Federciclismo. Non vuol dire granché, ma vorrei che si ricordasse che i principali autori a vario titolo della gara hanno fatto finta di niente, mentre sulla stampa generalista apriti cielo. La seconda: non mi piace lo sport nazional-romano chiamato «tiro alla Raggi» e non mi ci voglio esercitare, sarebbe un facile femminicidio a mezzo stampa; né voglio sporcarmi con dietrologie complottiste modello scia chimica, come per esempio «non ha voluto le Olimpiadi e adesso il mondo dello sport glie la fa pagare»: anche qui siamo nell’ambito della disabilità intellettiva. Che la sindaca comunque debba darsi una mossa è un fatto conclamato, Giro o non Giro.

Vorrei invece ricordare che il fattaccio scoperto dai guerrieri del Giro si concretizza quotidianamente sul selciato romano, popolarmente chiamato «sampietrino» (vero nome: «selce», romanesco «sercio»). E’ una versione ridotta del basolato romano dai tempi della monarchia a quelli della repubblica e infine dell’impero; si usa da sempre. Il materiale è generalmente ricavato dalla più imponente colata lavica della zona, una lingua di 11 km sputata dai Colli Albani 270.000 anni fa, la colata di Capo di Bove. La forma del sampietrino è troncopiramidale, con una base di 7-8 cm e una testa di 11-13; la sua struttura è studiata per l’incastro nella sabbia, e la parte emersa ha quella misura e non altre perché corrisponde all’area dell’unghia dei cavalli, che possono appoggiarsi agevolmente agli spigoli tra un selce e l’altro.

Su questa pavimentazione storica e studiata per mezzi oggi scomparsi corrono ogni giorno 3 milioni di automezzi privati, bus, camion; perlomeno quelli che riescono ad arrivare in zona più o meno centrale. Un’invasione continua, inarrestata qualsiasi cosa accada, ingestita e al momento ingestibile: non esiste alcun ragionamento che convinca i romani a smettere di calpestare i monumenti, appestare l’aria, ammazzarsi in scontri. I notevoli varchi tra un selce e l’altro in cui cadiamo spesso noi ciclisti sono provocati da questo mastichìo costante della città. Raggi o no, Giro o no, proclami o no, cantieri o no: la bella pelle di Roma è butterata dal vaiolo chiamato motorizzazione.