Nessun emendamento. La manovra va presa così com’è, senza cambiare una virgola. Da palazzo Chigi la voce sulla decisione di rendere inemendabile la legge di stabilità filtra sin dalla sua presentazione, mercoledì sera. Nessuno protesta. Forse perché l’enormità della cosa è tale da renderla incredibile. Oppure, più probabilmente, perché il parlamento si è già arreso ed è pronto a svolgere il ruolo che Renzi gli ha cucito addosso: quello di un’assemblea di passacarte, convocata solo per approvare e applaudire.

Una cosa, in realtà, di Renzi deve essere detta: conosce i suoi polli. Sa che una legge di stabilità come questa è destinata a diventare un campo di battaglia. La minoranza Pd è in realtà prudentissima. Cuperlo loda la «linea espansiva» della manovra. Plaude al taglio «degli sprechi nella spesa pubblica». Però sottolinea che una cosa sono gli sprechi, tutt’altra i tagli lineari, così, insomma, bisognerebbe prestare un certo ascolto ai presidenti di Regione. Ci vuole la lente d’ingrandimento per accorgersi che nel fiume di parole c’è una critica alla manovra, però quella critica c’è ed è destinata a crescere nei prossimi due mesi. Dunque bisogna bloccare sul nascere ogni velleità di modifica: prendere o lasciare.

Tanto più che anche l’alleato più fedele di Renzi, il partitone azzurro, non può proprio fare a meno di sollevare dubbi. Persino uno che nessuno ha mai potuto definire troppo agguerrito come Gasparri mette le mani avanti: «Occhi aperti. Dietro la seduzione degli annunci si profila una raffica di tasse». Nonostante la timidezza estrema della minoranza Pd, insomma, con questi venti affrontare il parlamento è poco consigliabile. Ancora ancora la Camera, dove la maggioranza è più blindata di Fort Knox, ma al Senato, nonostante l’acquisizione ormai compiuta di un drappello di ex grillini, il rischio che passi qualche emendamento è troppo forte. E poi chi l’ha detto che il parlamento (specialmente l’«inutile» Senato) debba avere voce in capitolo in faccende importanti come una legge di stabilità?

 

Ma Renzi conosce i suoi polli ancora meglio quando si tratta di opinione pubblica. Alle critiche delle Regioni risponde con una raffica di tweet fatti apposta per dipingere i governatori come mangiapane a tradimento che strepitano perché vedono in pericolo la loro tendenza a buttare via pubblici quattrini. «Le Regioni si lamentano? Comincino dai loro sprechi». Se poi la sanità verrà tagliata, sia chiaro che la colpa è loro, dei satrapi spreconi: «Tagliare la sanità è inaccettabile. E’ impossibile risparmiare su acquisti o consigli regionali?». Insomma: «Non ci prendiamo in giro: se si vogliono ridurre le tasse tutti devono ridurre spese e pretese».

E’ il gioco di sempre: chi critica le scelte del governo lo fa solo per difendere i propri privilegi e la propria inettitudine. Funzionerà anche stavolta, perché in un Paese nutrito a rancore e odio per i politici, non c’è niente di più facile che accusarli di resistere solo per mantenere salda la loro posizione. Così come funzionerà (magari con qualche sbavatura casomai re Giorgio dovesse insistere per salvare la forma,) la trovata inedita di una manovra «prendere o lasciare», che non lascia margini all’intervento del parlamento.

Sono altre le critiche che Renzi teme in queste ore, e vengono da bestie feroci con le quali i tweet non servono: i cosiddetti «mercati». La mazzata degli ultimi due giorni in borsa, quella sì che è un campanello d’allarme che non si può liquidare con due parole sprezzanti. Se gli speculatori non si fanno convincere dall’imbonitore di palazzo Chigi, il guaio è grosso. La manovra a debito è basata sulla previsione di uno spread relativamente basso, lontano dalla quota 200 raggiunta ieri. Se dovesse salire ancora, o restare in quei paraggi, i conti andrebbero rifatti. E questo non è ancora il peggio: una tempesta finanziaria fornirebbe ai duri della Ue, che non aspettano altro, l’appiglio perfetto per bocciare la manovra e comminare sanzioni severe. Anche loro, i falchi del rigore, raramente si fanno addomesticare da qualche tweet.