Premiers plans è alla sua 32esima edizione. La sua nascita è coeva all’istituzione delle opzioni cinema e audiovisivo nei licei francesi, con l’idea di offrire ai liceali il lusso d’un vero festival internazionale. Tre decadi dopo, Premiers plans ha mantenuto la sua promessa e non ha venduto l’anima: cineasti da tutto il mondo (specialmente dall’Europa del nord) vengono a presentare il loro primo o secondo film. Un quarto del pubblico è ancora costituito da studenti. La loro presenza rende l’ambiente speciale: le sale sono piene d’un pubblico esigente ma benevolo, sempre entusiasta d’esserci.

D’altra parte, l’insegnamento del cinema in questo momento evolve sotto i colpi di una riforma che stravolge i fondamenti dell’educazione in Francia, e che è solo un tassello d’un brutale processo di trasformazione dell’intera società in senso thatcheriano. Il cinema non sparirà dai banchi di scuola. Ma si adatterà ad un mondo in cui l’educazione è un menu nel quale lo studente sceglie il proprio percorso individuale. E che in pratica è un altro modo per dare la parola ultima al mercato, a quel darwinismo sociale che è il credo fanaticamente rivendicato dell’attuale governo.

Il festival di Angers, dal canto suo, cerca di anticipare e di accompagnare i nuovi programmi con alcuni incontri formativi. In uno di questi, dedicato all’economia della produzione, gli insegnanti hanno potuto incontrare il produttore del fortunato Petit paysan (4 milioni di ingressi in sala nel 2017), il quale ha spiegato la storia produttiva del film. Anche per gli studenti, il festival è un’occasione per dare un’occhiata o in qualche caso anche mettere un piede nel mondo del cinema professionale. Tra le altre cose, i miei (un gruppo di 24, del penultimo e dell’ultimo anno) hanno lungamente discusso con i loro colleghi della scuola superiore Cinesud. E hanno incontrato Juliette Binoche, a cui era dedicata una piccola retrospettiva. In treno, al ritorno, mi sono intrattenuto con tre di loro.

Cosa avete chiesto a Binoche?
Anna: All’inizio è lei che ci ha fatto delle domande. Voleva sapere cosa pensassimo di Rosso sangue, che aveva presentato il giorno prima. Sulla storia aleggia l’ombra d’una strana malattia che colpisce chi è incapace di amare. All’epoca tutti erano ossessionati dall’Aids, di cui ancora non si capiva bene la natura… Voleva sapere come lo vediamo noi oggi. Sull’Aids le cose sono cambiate, e che a scuola si fa molta informazione. Il film mi ha comunque molto colpita. Penso che tratti di qualcosa di molto profondo. Al tempo stesso lo si può vedere come un semplice film di gangster.

E voi, le avete chiesto qualcosa?
Loïsa: Abbiamo parlato del mestiere d’attore. Le sue risposte sono sorprendenti, si vede che ci ha molto riflettuto. Per lei essere attore vuol dire reagire al personaggio che si interpreta – al cinema o al teatro.
Anna: ha insistito sull’importanza del lavoro nella sua vita e come l’abbia spinta a prendere coscienza di cose anche molto lontane dal suo universo.
Donia: ha detto una cosa che sul momento mi ha molto colpita. L’idea è che il mondo moderno separa il corpo e l’anima. E che essere attrice è una maniera per riconciliarsi con la materia. Ha usato questo termine, per parlare delle foglie, dei fiori, del mondo in genere.
Anna: a me interessava sapere come sceglie i propri ruoli, e se i suoi criteri sono cambiati nel tempo. Il successo all’inizio l’ha rinchiusa in un certo ruolo. Ma in seguito è riuscita ad evolvere. Donia: Parlava soprattutto del rapporto con i registi. Un tempo era più docile: voleva far bene, specialmente con Carax, di cui era innamorata. In seguito ha imparato ad imporre il proprio modo di lavorare. Ci ha raccontato in particolare un episodio sul set di In My Country in cui è riuscita ad imporsi su Boorman.

Cos’altro vi ha interessato?
Anna: La retrospettiva Professione: reporter, con un chiaro riferimento politico all’attualità.
Loisa: In particolare Urla del silenzio e Tutti gli uomini del presidente. Sono film in cui il cinema parla del giornalismo e al tempo stesso fa giornalismo.
Anna: Sono un po’ delle utopie…
Donia: Però sono anche casi realmente accaduti. È molto forte alla fine di Urla del silenzio vedere la foto del vero Dith Pran. È inevitabile fare il confronto tra questi ideali e la miseria del giornalismo oggi in Francia, dove i giornalisti di successo sono tutti cani da guardia del potere.
Loïsa: Penso che sia l’idea dei programmatori.

E nella competizione, miglior film?
Anna, Donia, Loïsa: il giallo islandese, A White, White Day di Hlynur Palmason.