I premi consegnati l’altro giorno nulla aggiungono ai David di Donatello 2016 la cui sostanza era già chiara nelle nomination. La notizia positiva è che il premio alla regia – insieme a altri cinque tra cui la fotografia di Peter Suchitzky – è andato a Matteo Garrone per Il racconto dei racconti. Perché Garrone è un grande regista, occhio magnifico di narratore per immagini e questo fin dai suoi esordi, dai tempi che sembrano lontanissimi dei film più indipendenti come Silhouette divenuto poi Terre di mezzo fino a Estate romana e a quel Reality così poco apprezzato e invece ritratto in profondità di un’epoca e di un Paese, il nostro, in una prospettiva che alla cronaca predilige la dimensione contemporanea universale. La stessa che si ritrova nel Racconto in cui, utilizzando la potenza della fiaba, illumina nelle atmosfere e nelle storie di Basile una materia umana fuori dal tempo. Il femminile e il maschile, il desiderio dello sguardo, l’odio, l’amore, gli eccessi, la vendetta. Tra boschi fatati e regine pronte a mangiare il cuore di un drago pur di essere madri, prendono forma come in una danza i movimenti eterni dell’essere umano, la sua violenza e la sua temibile fragilità.
Per il resto tutto era già previsto, deciso appunto dalle cinquine che restringevano il cinema italiano a una manciata di titoli. Qualche giorno fa all’annuncio che nessun film italiano sarebbe andato in concorso al prossimo festival di Cannes si è scatenata una tempesta. Ma come e questo e quello e Bellocchio? Già Bellocchio che nelle «nomine» dei David con Sangue del mio sangue nemmeno c’era. Cosí come non c’era Giuseppe Gaudino, il suo Per amor vostro era presente «solo»con la giustissima nomina a Valeria Golino, attrice straordinaria in questa prova ma alla quale è stata preferita la protagonista di Jeeg Robot Ilenia Pastorelli.
Così come non c’era Bella e perduta di Pietro Marcello, e il punto non è se piacciono o meno, perché il gusto è sempre personale e opinabile. Ma film come Bella e perduta sono quelli che circolano nel mondo, che conquistano la critica internazionale e pure il pubblico, che danno del cinema italiano un’immagine autoriale nuova e entusiasmante.
Invece l’industria e gli addetti preferiscono celebrarsi con la commedia di corna ai tempi dello smartphone – Perfetti sconosciuti miglior film, vabbè – e con il «nuovo» dello strapremiato Jeeg Robot, uno di quei film «giovani» che mettono d’accordo tutti, che producono consenso generale (perfetto per l’era renziana) senza troppi sussulti per carità.
E che, soprattutto, esprimono al meglio il ritorno del «genere» (?), in cui nel cortile di casa (nostra) ci si affanna a vedere il futuro radioso del cinema nostrano. Per fortuna in Italia accadono tante altre cose, ci sono film che ai David nemmeno arrivano, esordi perfetti di cui i giurati di quel premio non sanno nulla come Antonia di Ferdinando Cito Filomarino un’opera prima davvero alta che in sala è riuscita a uscire solo a Milano (per non dire della cinquina del documentario). Il problema è che il sistema del cinema nazionale nonostante le tante promesse è davvero disfunzionale. In questo i David lo riflettono al meglio, anzi ne sanciscono la permanenza. Ma non ci lamentiamo però se non siamo in concorso a Cannes.