La Cina è in crisi? Lo chiediamo a Jurgen Conrad, economista capo per la Cina della Asian Development Bank, l’uomo adatto per cogliere il quadro generale e intravedere tendenze future, visto che da anni guida il gruppo di ricerca interno a una delle maggiori istituzioni finanziarie internazionali e parla a quattr’occhi con policy makers cinesi e di mezza Eurasia.

La Cina svaluta il Renminbi, ma l’economia non reagisce e le borse mondiali precipitano. Molti esperti parlano di fine del «modello Cinese», cioè del capitalismo di Stato. È così?
Con la decisione dell’11 agosto di riformare il meccanismo di fissaggio del Rmb, l’obiettivo principale della Banca Centrale Cinese è di determinare sempre più il valore della propria valuta attraverso domanda e offerta, non di indebolirla. La Cina vuole che la sua divisa entri nel paniere che costituisce i Diritti Speciali di Prelievo e le forze di mercato devono svolgere un ruolo sempre maggiore. Ultimamente il valore del Rmb si è per altro stabilizzato, confermando l’opinione che le grandi variazioni del tasso siano solo aggiustamenti “una tantum”. Ma anche se la svalutazione del Rmb dovesse continuare, è improbabile che abbia un grande impatto sulla crescita cinese.

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Di una valuta più debole possono beneficiare alcuni esportatori, ma il rallentamento dell’economia si spiega con ragioni strutturali, soprattutto con la contrazione numerica della forza lavoro disponibile e con il considerevole aumento dei salari reali a partire dal 2008. In Cina si sta verificando un processo naturale: quando il livello dei redditi aumenta, la crescita diminuisce. Questi fattori non possono essere invertiti dalle variazioni del tasso di cambio.

Parlare di un fallimento del modello cinese è prematuro, ma il modello deve comunque cambiare. Una forte espansione del terziario è anche un bene per l’occupazione, perché i servizi implicano una maggiore intensità di lavoro rispetto alle manifatture. È vero che in importanti settori dell’economia il governo continua a preservare la posizione dominante delle imprese di Stato, ma sta anche cercando di migliorare la loro efficienza.

Ha senso fare confronti con la crisi delle Tigri Asiatiche del 1997 o con quella dei mutui subprime del 2008?
No. Ci sono più differenze che somiglianze tra l’Asia del 1997-98 e oggi. I tassi di cambio fissi sono stati sostituiti da quelli liberamente fluttuanti, quindi non ci sono più pericolosi accumuli di squilibri esterni. Le riserve valutarie sono molto più grandi di allora, il che dà ai politici parecchie armi per attutire l’adeguamento delle proprie valute al mutamento delle condizioni globali, compresi i prezzi delle materie prime più bassi. E l’esposizione dei Paesi asiatici al debito in valuta estera è molto più basso e a lungo termine.

Per quanto riguarda la crisi dei mutui subprime del 2008, i servizi finanziari non bancari sono ancora poco sviluppati in Asia. Non c’è troppa innovazione finanziaria, come negli Usa e il debito delle famiglie in Cina è ancora basso (il 36% del Pil) e il tasso di risparmio interno molto alto (il 47,8 per cento). C’è sovraccapacità nel settore immobiliare, ma non su scala nazionale, bensì soprattutto nelle città di terzo e quarto livello. Inoltre, dopo la correzione del mercato nel 2014, volumi di vendita e prezzi delle case stanno aumentando di nuovo.

Questa crisi-non crisi può estendersi al resto del mondo?
L’economia cinese non è in crisi. Il suo alto tasso di crescita di lungo periodo sta rallentando a causa di fattori strutturali e il governo ha tutti i mezzi per controllare questo processo ed evitare l’instabilità sociale e finanziaria. Tuttavia, la domanda cinese di materie prime è calata, dato che anche il modello di crescita sta cambiando: è sempre meno legato a investimenti e industrie pesanti ed è meno intensivo dal punto di vista energetico. È ovvio che ci sia un impatto sui prezzi internazionali delle materie prime. Ora, mentre prezzi più bassi sono positivi per l’economia globale in generale, è chiaro che i Paesi esportatori di materie prime debbano adeguarsi.

Si ipotizza una cosiddetta “guerra valutaria” che potrebbe essere provocata da un’ulteriore svalutazione cinese. Quanto è probabile?
Tradizionalmente, la Cina non si è mai invischiata in “guerre valutarie”. Al contrario, durante la crisi asiatica e la crisi finanziaria globale, Pechino ha offerto un contributo fondamentale, mantenendo il tasso di cambio stabile. Ripeto: l’obiettivo principale della Pboc con la riforma del meccanismo di fissaggio del Rmb non è una svalutazione competitiva, bensì una maggiore adesione alle leggi di mercato.

Più in generale, sembra che ci sia un problema di sovraccapacità a livello globale e la Cina non è ancora quella società dei consumi capace di assorbire questo surplus. Il grande progetto di Via della Seta a guida cinese, può essere visto anche come un enorme falò di risorse in eccesso? L’alternativa pacifica a una guerra, forse.
Alcune delle principali industrie cinesi continuano ad avere problemi di sovraccapacità: automobili, macchinari elettrici, siderurgia, attrezzature varie, minerali non ferrosi, chimica. La Via della Seta può favorire il consumo di queste risorse ma non è questo l’obiettivo principale. Per ridurre la persistente sovraccapacità è necessario limitare l’intervento del governo in economia, riformare l’amministrazione, l’utilizzo del suolo, tagliare gli incentivi alle industrie inutili e inefficienti. L’accento dovrebbe essere posto su un migliore utilizzo della capacità esistente, delocalizzando le industrie in altre regioni e facendo fallire le imprese inefficienti, attuando fusioni e acquisizioni. In questo senso, si vedono già miglioramenti.

Per una ricerca dell’Asian Development Bank, dal 2013 la capacità in eccesso è diminuita. Gli impianti di produzione superati vengono chiusi, cosa buona anche per l’ambiente. Sono stati resi più efficienti gli investimenti, il che in parte spiega il rallentamento della crescita. Che però resta forte – circa il 7 per cento – e consente quindi di utilizzare la capacità esistente.