Incalzato a parlare di letteratura ed esilio alla consegna di un prestigioso viennese, lo scrittore esule cileno Roberto Bolaño affrontò gli angusti confini delle letterature nazionali attraverso una poesia di Nicanor Parra: «I quattro grandi poeti del Cile/ sono tre/ Alonso de Ercilla e Rubén Darío».
Se da quel mondo distante che l’esule ci rende vicino rovesciamo il medesimo sguardo – lo sguardo che costruisce ponti di significato trasgredendo i confini letterari – sul nostro mondo, il Mediterraneo sul quale ci affacciamo accanto alla penisola balcanica, eccoci trasportati dritti verso un paradosso simile: incalzati a dover riduttivamente indicare di questo mondo i quattro più grandi intellettuali, possiamo ben dire che essi sono tre, e sicuramente uno di questi due è stato Predrag Matvejevic.

A RICORDARCI L’AUTORE di Breviario Mediterraneo, scomparso lo scorso anno a Zagabria dopo aver vissuto fra noi «fra esilio e asilo», e a testimoniare anche il rapporto intessuto negli anni con il manifesto, arriva oggi Breviario jugoslavo. Colloqui con Predrag Matvejevic (manifestolibri, pp. 112, euro 10), breve raccolta, dedicata a Rossana Rossanda, di interventi e materiali che ripercorrono in presa diretta alcuni fra gli snodi più importanti dell’acceso dibattito pubblico a cui Matvejevic ha preso parte negli ultimi anni, rifuggendo ogni autocensura: la Jugoslavia veniva saccheggiata dai piani criminali degli etnocrati che presero il timone delle transizioni post-socialiste, e Matvejevic – nato a Mostar, nell’Erzegovina di Bosnia, da madre croata e padre russo di Odessa – invitava pubblicamente i leader nazionalisti a suicidarsi.

Osteggiato in patria, riparato dapprima alla Sorbona a Parigi, e poi per quattordici anni alla Sapienza a Roma, Matvejevic si impegna in un lavoro intellettuale che tenta – come ben spiega il curatore Tommaso di Francesco – di aprire la strada di una nuova filologia dell’esistente, demistificando ed estendendo i confini di un mondo devastato e in macerie ben oltre quanto ammettano gli spazi della cultura nazionale e l’ideologia stessa dello stato-nazione: si tratta della coltivazione tenace – contro ogni cliché balcanista e tenendo invece aperto uno spazio che molti finirono per rifiutarsi persino di immaginare – dell’idea che i popoli balcanici abbiano «molte più cose per stare insieme che per dividersi». Pubblicato in forma di colloqui, Breviario jugoslavo non offre solo – come è lecito aspettarsi – un’impietosa disamina dei clamorosi errori di lettura («lasciamo la Jugoslavia ai suoi demoni!»), delle manipolazioni e delle complicità che disposero la scena dei peggiori crimini, portando alla pace attraverso la carneficina di Srebrenica, fino a riverberarsi ancor oggi in tensioni attorno a sovranità nazionale, minoranze e diritti che vanno ben oltre i Balcani.

DAI COLLOQUI emerge piuttosto la consapevolezza di sommovimenti più profondi della Storia: come non notare, per esempio, come finché è esistito il deriso mondo non allineato, a cui l’esperienza jugoslava ha fornito il carburante intellettuale, non esistevano né «i nazionalismi micidiali» nell’ex mondo socialista, né «il fondamentalismo feroce» nei paesi arabi. «Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri» – afferma il dissidente Matvejevic mentre ostinatamente demistifica verità di comodo e superficie, come le «giornate del ricordo» declinate al singolare-nazionale, in cui la memoria degli uni è giocata contro gli altri oltre confine. Valga per tutti la documentata insistenza, da parte del dissidente che in Croazia ha subito minacce, accuse, censure e denunce, su come le foibe furono in origine un’invenzione dell’Italia fascista, la stessa Italia che addestrava le milizie ustasha croate.

Fedele al ruolo di intellettuale pubblico, durante gli anni dell’esilio Matvejevic non solo argomenta, prende parte, polemizza: da studioso affonda le mani in profondo lavoro di scavo che riporta alla luce – come dirà – «gli elementi che hanno la capacità di unire»: fra questi, dopo lo studio sull’«altra Venezia», dopo la «poetica del Mediterraneo», dà alle stampe Pane nostro, una colta lettura storica e geografica del nutrimento umano, nonché del rapporto fra pane e potere in esplicita chiave anti-neoliberista.

Contro ogni amnesia, Breviario jugoslavo sin dal titolo ripropone, col riferimento alla Jugoslavia di cui Matvejevic sempre si considerò cittadino, un termine rimosso, strappato violentemente alla Storia, uno spazio disallineato, rappresentato come obsoleto, violentemente sgretolato nella stretta fra un ordine liberale trionfante e l’ascesa del nazionalismo clientelar-populista che l’abbracciò. Occorre leggere la traiettoria intellettuale di Matvejevic oltre la consegna a una genealogia della sconfitta, collocarlo nel fertile solco dell’eterodossia tracciato dal socialismo umanista della rivista «Praxis», e della Scuola di Curzola a partire dal 1968: il palco internazionale, affacciato sull’Adriatico, dove fra Est e Ovest prendeva voce l’«altra Europa».

RIVOLGENDO l’ultimo sguardo ai giorni nostri, il paradosso con cui si confronta esplicitamente Matvejevic può essere letto alla luce della riflessione che sin dall’origine alimenta il marxismo critico ed eterodosso: la crisi del sistema capitalista – oggi non più la crisi del ’29, ma quella avviata dal crack statunitense di dieci anni fa – invece che dar corpo e sostanza a prassi di emancipazione in coerenza con l’analisi delle contraddizioni insostenibili dell’ordine liberale, sembra votata ad alimentare scorciatoie autoritarie di segno socialmente regressivo e reazionario: nazionalismi, sovranismi, un Mediterraneo che doveva diventare ponte e diventa invece mare di morti. Da qui – ritrovando le parole di Matvejevic stesso – da come «il rafforzarsi del nazionalismo estremo ha indebolito ogni opposizione possibile di sinistra», il valore del breviario jugoslavo per «una sinistra europea sconfitta ma non esaurita».