Lavora, precario, anche con un contratto che dura meno di un mese. È meglio di niente, lo devi accettare perchè c’è chi sta peggio di te. Il tuo vicino un contratto può anche ottenerlo, ma per un solo giorno. Cosa scegli? Una domanda minacciosa anche in quel settore del mercato del lavoro rappresentato dal contratto a tempo determinato. L’incidenza di questo contratto sul totale degli avviamenti è letteralmente esplosa dall’approvazione della riforma Fornero e conferma un andamento storico che risale alla fine degli anni Ottanta.

Dall’elaborazione realizzata dalla Cgil sui dati del ministero del lavoro ieri è emerso che nel primo trimestre 2014 su 1.849.844 attivazioni di nuovi rapporti di lavoro, ben 804.969, il 43,5 % , hanno avuto una durata inferiore al mese, 331.666 un solo giorno, quasi quanto quelli di durata superiore a un anno, 397.136. Radicale risulta essere il rovesciamento tra il tempo indeterminato – a lungo considerato nel XX secolo lo standard di un rapporto di lavoro – con quello determinato. Per il sindacato di Corso Italia, nel primo trimestre del 2014 il 67% delle assunzioni effettuate è stato formalizzato con contratti a tempo determinato, l’8% con contratti di collaborazione, poco più del 2% con contratti di apprendistato e solo il 17,6% con contratto a tempo indeterminato.

Dall’indagine emerge un saldo negativo tra assunzioni e licenziamenti. In altre parole è in atto uno spostamento dalle forme contrattuali a tempo indeterminato (-6%) a quelle a tempo determinato. Viene inoltre confermato il crollo dei contratti di apprendistato, appena il 2,4% , sui quali molto si è detto e riformato senza evidentemente alcun risultato significativo dalla riforma del testo unico sull’apprendistato nel 2011 a oggi, quando lo si vuole inserire al quarto anno delle scuole tecniche o professionali.

La Cgil usa questi dati in una polemica contro la gamba destra del governo Renzi. Il Nuovo Centro Destra (Ncd) con Alfano e Sacconi perora la cancellazione dell’articolo 18 nel decreto delega sul «Jobs Act» che si è arenato in parlamento, in attesa di lumi sulla riforma costituzionale. Sebbene questo articolo dello statuto dei lavoratori poco o nulla riguardi la situazione del magma rappresentato dai contratti a termine, per questa pattuglia ultra-liberista la sua abolizione corrisponde ad un aumento di possibilità di lavoro.

Senza contare che il decreto Poletti da poco approvato garantisce una più compiuta liberalizzazione e precarizzazione proprio dei contratti a termine. Dopo la conferma della recessione tecnica da parte dell’Istat (-0,3% del Pil nel 2014) è chiara la portata ideologica della proposta dell’Ncd. ««Il tema dell’articolo 18 – ha detto ieri il segretario Cgil Susanna Camusso – è agitato ideologicamente, non risolve nessun problema in particolare rispetto all’occupazione. Il governio ha detto che la soluzione era un contratto unico a tutele crescenti che avrebbe sostituito le altre forme di lavoro. Siamo ancora qui che aspettiamo».

«L’alta percentuale di rapporti di lavoro di brevissima durata – spiega la Cgil – ci dice che in Italia non è poi così difficile mandare a casa un lavoratore. Un tema che, invece, continua ad essere agitato da alcune forze politiche ad ogni performance negativa della nostra economia, quasi fosse la soluzione a tutti i problemi del Paese. Viceversa – sottolinea il sindacato – mai come questo momento è stato evidente che il vero problema non è come aumentare i licenziamenti ma come aumentare l’occupazione».

Questi sono dati sui quali l’Isfol ha realizzato studi interessanti. In un’audizione alla Camera del 2 aprile scorso sul decreto Poletti, il presidente dell’ente Pietro Antonio Varesi spiegò l’aumento dei contratti a tempo determinato come il risultato della riforma Fornero del 2012. Subito dopo la sua approvazione, l’incidenza delle assunzioni di breve e brevissima durata dal 62,3% del secondo trimestre al 67,3% del quarto dello stesso anno. In questo quadro si spiega l’abbandono dell’apprendistato a favore dei tirocini formativi da parte delle imprese: +6.500 nel 2013, 3 mila fino ai 24 anni e 2.330 fino ai 34.

Allargando il campo, si scopre che questa tendenza risale alla metà degli anni Novanta. Il volume curato da Andrea Ricci, Mercato del lavoro, capitale umano ed imprese pubblicato dall’Isfol a giugno, dimostra che la diminuzione delle tutele per il lavoro temporaneo ha moltiplicato i contratti a termine, mortificando la produttività dei settori interessati. Le riforme in Italia sono state già fatte tra il 1995 e il 2007. In questi anni il nostro paese ha registrato la diffusione massiva del lavoro precario in Europa: +122% contro il 62% della Spagna e il 48% di Francia e Germania.

Il decreto Poletti è l’ultimo di una lunga serie che ha deregolamentato i contratti a termine, ha compresso i costi di produzione per l’impresa e non ha valorizzato la produzione, cancellato diritti e innovazione.

Allora, precario, cosa scegli?