In quale abisso sia sprofondato il Libano nell’ultimo anno è ormai sotto gli occhi di tutti. Il 17 ottobre scorso un rigurgito per l’ennesima presa in giro – una tassa su Whatsapp – ha rovesciato nelle strade milioni di persone contro l’intera classe politica corrotta, al potere da sempre.

Poi in breve: novembre, dimissioni dell’allora premier Hariri; gennaio, lo sostituisce Diab che si dimette dopo l’esplosione al porto il 4 agosto (200 morti, 7mila feriti, Beirut devastata); fine agosto, accordo su Adib premier che non riesce a formare il governo e tempo 20 giorni rinuncia all’incarico.

Ora nuove consultazioni e già si parla un’altra volta di Hariri come possibile premier. La formazione di un governo riformatore permetterebbe al Libano di ricevere gli aiuti internazionali stanziati per l’esplosione e a Macron, artefice del piano di salvataggio, di riscuotere l’eredità coloniale libanese. Intanto però il sistema egemonico di potere non è mai stato scalfito e le riforme vengono chieste a chi ha messo in ginocchio il paese.

Da ottobre la parabola sociale è solo discendente. Svalutazione della moneta dell’80%, inflazione alle stelle, crisi sociale, alimentare e sanitaria per il Covid-19, che da un mese conta più di mille casi al giorno e che il ministro della Salute non ha esitato a definire «fuori ogni controllo».

La solidarietà internazionale conversa nelle ong dopo il 4 agosto non sempre si è concretizzata in aiuti reali immediati, ritardati dai lunghi iter burocratici e che comunque, come spesso è accaduto dalla fine della guerra civile (1975-90) a oggi, curano il sintomo e non la malattia di una realtà complessa e difficile.

Joanna, 28 anni, è una graphic designer ed era in ufficio alle 18.08 del 4 agosto. Ha il corpo e il viso segnato dalle cicatrici e un piccolo cerotto al dito. «Il nostro ufficio era a Gemmayze, proprio di fronte al porto ed è stato distrutto. Noi siamo in 50 e ancora mi chiedo come sia possibile che siamo tutti vivi. Sono andata a piedi all’ospedale St. George…non c’era più. Ho raggiunto allora, sempre a piedi, mio fratello che cercava di raggiungermi, la città era bloccata. Camminavo e non sentivo il dolore, nonostante fossi coperta di sangue. È inorridito quando mi ha visto. Mi ha accompagnata all’Ospedale del Monte Libano dove ho aspettato 4 o 5 ore prima di essere medicata. Il giorno dopo sono andata in un altro ospedale perché nel caos generale non mi avevano fatto le lastre e avevo pezzi di vetro dentro le ferite. Me le hanno riaperte, estratto i vetri e ricucite».

«La mia famiglia mi ha portato in montagna, ero sotto choc e anche loro. Ho vissuto nei giorni successivi un senso di colpa profondo per essere sopravvissuta e per il fatto di non essere riuscita a fare niente per gli altri. Chi puliva le strade, chi faceva volontariato…io non riuscivo a fare niente».

Si chiama «sindrome del sopravvissuto» e agisce sul senso di colpa di chi ha vissuto un trauma collettivo e sta male per il fatto di essere in una situazione che ritiene di privilegio a confronto con chi appare maggiormente danneggiato (Kubany-Manke, 1995).

Ma Joanna sa che il senso di colpa ha il potere feroce di isolare l’individuo e di non permettere alla parola di operare la sua funzione terapeutica. Si fa coraggio, ne parla perché vuole che «le altre persone come me sappiano che tutti stiamo affrontando la stessa cosa. Se ne può parlare e se ne può uscire».

Poi racconta del cerotto. «In questi giorni ho tolto l’ultima scheggia di vetro da un dito. Ho chiesto al capo i due giorni che il medico mi aveva prescritto, perché lavoro con il pc e non sarei stata in grado di usarlo; mi ha detto che un giorno sarebbe bastato».

Poi continua. «Dopo l’esplosione ci siamo trasferiti a una 50ina di km da Beirut. Il nuovo ufficio non ha lo spazio per il distanziamento sociale e un paio sono risultati positivi ai tamponi. Abbiamo fatto i test a spese nostre e qui sono cari, un quarto del mio stipendio. In molti potremmo lavorare da casa, ma lui non vuole. La mia auto e quelle di molti colleghi sono state danneggiate nell’esplosione e non è sempre facile organizzarsi. Non ci ha dato un soldo di aumento per la trasferta, soprattutto adesso che la lira non vale niente. La maggior parte dei nostri progetti è all’estero e viene pagata in dollari e in euro. Ora con il cambio non gli costa niente pagare gli stipendi e noi…nessuno parla, tutti abbiamo paura di perdere il lavoro».

Joanna – che è un nome falso – pretende il più stretto riserbo su di lei e sulla compagnia perché sarebbe certamente licenziata e nonostante lo sfruttamento continua a considerarsi privilegiata per avere un lavoro. E qui la sindrome del sopravvissuto, di chi vive un dramma ma si sente fortunato perché c’è chi sta peggio, si declina in forme diverse, ma in tutta la sua sostanza macabra.

La catastrofe sociale è quella causata dall’idea di lavoro, di società, di umanità disgregata e frammentata di quel mondo neo-liberista che in Libano ha una delle sue massime espressioni e che la crisi ha soltanto restituito nella sua più cruda verità. Non si contano le aziende chiuse e i posti persi solo quest’anno.

Chi ha ancora un lavoro se lo tiene a costo di qualsiasi sacrificio e umiliazione. Chi può lascia il paese, specie i giovani. Chi ha un’educazione, prova a iscriversi nelle università europee e canadesi. Chi ha i requisiti tenta la sorte con le poche possibilità offerte dalle ambasciate straniere o da qualche ong.

E poi l’orrore nella tragedia: il traffico di esseri umani verso Cipro. Spesso le imbarcazioni vengono lasciate al loro destino in mare aperto senza viveri e pochi giorni fa i corpi di quattro persone – un siriano, un indiano, un uomo e un bambino libanesi – sono stati recuperati dalla guardia costiera. Erano stati gettati in mare dopo qualche giorno dagli altri disperati sull’imbarcazione, recuperati a loro volta.

Zeina Zerbé, docente di psicologia all’Università Saint Joseph di Beirut e psicoterapeuta psicoanalitica, ha disegnato una linea che va dalla thaura (rivolta) iniziata il 17 ottobre 2019 a oggi: «Un velo finalmente è caduto, un carapace che si è rotto. Da un punto di vista psicologico è una gestazione, un passaggio dalla generazione precedente, radicata nel settarismo, a una nuova, meno legata ai vincoli comunitari. La thaura ha portato a una presa di coscienza, al confronto tra varie categorie sociali, ma si è comunque trattato di una “crisi adolescenziale” in cui si individuano i problemi ma non si propongono le soluzioni».

Per tratteggiare i contorni del trauma dovuto all’esplosione del 4 agosto utilizza le categorie dell’irrappresentabile e dell’indicibile. «Nessuno era preparato a qualcosa di così importante e così criminale. Il Libano non è certo nuovo a eventi drammatici e violenti. Per la prima volta però non si è trattato di morti politici, ma di gente comune uccisa dal malfunzionamento di un intero sistema politico corrotto. Per la prima volta i libanesi si sono stretti attorno ai loro morti civili con un’identificazione nominale di ogni vittima, un processo di umanizzazione e di emersione dell’individuo non più visto come appartenente al suo gruppo politico – idea fondante del comunitarismo – e fedele al suo leader».

Sull’immediato futuro del Libano l’approccio è concreto. «Il sacrificio dei giovani per il paese in questo momento storico è un atto di masochismo. È naive pensare che ci sia nell’immediato un’alternativa al sistema attuale. Si tratta di un processo che ha bisogno di molto tempo. Ai giovani che vanno via in cerca di una vita migliore non mi sento di dire che sbagliano».

Un ritratto inesorabile, triste, di un paese, di un popolo che prova senza riuscirci a rompere il tetto di vetro di una struttura di potere egemonica e irremovibile e costretto, quando non può andare via, a subirla o a rischiare la morte.