In pensione – col contributivo – oltre i 70 anni con assegni da fame. «La bomba sociale» delle pensioni di chi oggi lavora part time o è precario è già innescata. E i primi dati ufficiali sugli attuali quarantenni ne fanno percepire la gravità.

UN’ANALISI DELLA CGIL e dell’economista Michele Raitano presentate ieri mattina durante il convegno «Giovani e pensioni: rivolti al futuro» mostrano esempi da pelle d’oca.

Un part time che ha iniziato a lavorare nel 1996, quando scattò il sistema contributivo, con un salario annuo di 10 mila euro annui e uno stop di un anno per ogni tre di lavoro, pur avendo iniziato a 24 anni non potrebbe andare in pensione prima dei 73 anni.

Una colf che oggi ha 35 anni nel 2057 prenderà solo 265 euro, dopo ben 43 anni di lavoro. E ancora: nella stessa banca un dirigente a 4 mila euro al mese con 20 anni di lavoro potrà andare in pensione a 64 anni con 1.330 euro.

Una lavoratrice delle pulizie part time a sei ore al giorno, per 600 euro al mese, nonostante 40 anni di contributi – il doppio del dirigente – dovrà aspettare i 68 anni perché maturerebbe un importo troppo basso.

Colpa della riforma Fornero – che nonostante la strombazzata Quota 100 tornerà quasi totalmente in vigore dal 2022 – che prevede che si possa lasciare il lavoro solo con un assegno pari a 1,5 volte l’assegno sociale (quest’anno fissato a 458 euro). E colpa dell’adeguamento all’aspettativa di vita dell’età pensionabile voluto da Sacconi e accelerato dalla Fornero.

«Non è prevista un’integrazione al minimo, come nel regime retributivo – spiega l’esperto di welfare della Cgil, Enzo Cigna – e quindi le persone devono lavorare finché non raggiungono una pensione del livello previsto».

DETTO QUESTO, ANCHE ABOLENDO questo tetto il problema resta: la pensione della lavoratrice delle pulizie è vergognosamente bassa e va alzata.

«Il sistema contributivo come attualmente normato va rivisitato per superare i suoi squilibri, partendo dal modificare la rivalutazione del montante accumulato legato ad un Pil che è sempre stato più basso delle previsioni fatte ai tempi della riforma Dini – spiega il segretario confederale Cgil Roberto Ghiselli – . Vanno orientate i comportamenti dei giovani garantendo loro un lavoro continuo. La nostra proposta punta su flessibilità dell’uscita, sulla solidarietà verso lavori gravosi e lavoro di cura delle donne e sulla sostenibilità che va ribadita con la commissione che l’Inps deve convocare».

L’ANALISI DI RAITANO sulle coorti 1996-1999 – pari a 200mila lavoratori – su 15 anni di attività scopre che il 33 per cento degli uomini e ben il 51 per cento delle donne ne ha trascorsi almeno 10 da woorking poor, con salari sotto i 900 euro al mese. E la prospettiva di una pensione ridicole.

Per chi legge il manifesto non è una novità. Così come non è una novità la proposta per farvi fronte: la pensione contributiva di garanzia «lanciata 9 anni fa» da Michele Raitano. «Non è una misura anti povertà, ma un pavimento che corregge il calcolo previdenziale, coerente con la logica del contributivo (make work pay, far contare il lavoro) muovendosi sugli anni di attività (considerando anche i periodi di cura) e gli anni di uscita». Una pensione che con 42 anni di attività (anche pochi mesi di contributi l’anno) e 66 anni di età consentirebbe un assegno netto di 960 euro, ma che aumenterebbe uscendo più tardi o avendo più anni di contribuzione.

E che soprattutto ha il pregio di essere una misura ex post – lo stato integrerebbe l’assegno al momento del pensionamento – facendo passare la gobba pensionistica del 2040, incentivando le persone ad attivarsi, sostituendo e risparmiando circa un quarto degli assegni sociali attuali».

È TOCCATO A MAURIZIO LANDINI fare la sintesi del convegno. Per il segretario Cgil «i contributi previdenziali sono diritti e non dobbiamo più sentir dire ai giovani “non servono a niente”». Innovative le sue parole sulla previdenza complementare. «Dopo 20 anni ha una scarsa adesione – circa il 20% dei lavoratori – e paradossalmente la usa chi non ne ha bisogno (chi prospettive di pensione buone) e non la usa chi ne avrebbe bisogno: giovani e precari. In alcuni contratti siamo riusciti a imporre che il contributo delle aziende sia aumentato e obbligatorio ma forse la prospettiva di un sistema pubblico che riesca ad allargare il campo di applicazione a tutti i rapporti di lavoro – anche le partite Iva – e che riesca ad usare i 170 miliardi l’anno raccolti in investimenti anche in infrastrutture sociali come la sanità pubblica favorirebbe la partecipazione dei lavoratori. Il tutto in un’idea di sistema che finora è mancata».