Nel giro di anni che segna una virata nelle nostre lettere – 1923, La coscienza di Zeno; 1925, Ossi di seppia – già imminente La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, capolavoro dirompente per tema e metodo (1930), esce da Alpes, 1928, Penisola pentagonale di Mario Praz, trentaduenne dalla bibliografia che lo segnala, perfino a T.S. Eliot, come illustre anglista, epiteto poi adottato da coloro che, per presunta fama iettatoria, non vorranno pronunciarne il nome. Alpes è l’editore presso cui l’anno dopo, 1929, uscirà Gli indifferenti di Moravia, ventiduenne con alle spalle qualche racconto sparso: è destinato a una fama non solo di romanziere ma di scrittore di cose di viaggio. Taluni, detraendo, diranno risiedere nei reportage la parte migliore della sua opera. Gli intrecci biografici tra Praz e Moravia segnalano altri snodi. Uno, trascurabile, riguarda la famosa nomea: «una volta ero dalla De Céspedes e successe che Moravia fece un gesto sbagliato, rovesciò un vaso pieno d’acqua e di fiori su un tavolino e si allagarono dei manoscritti» (in un’intervista ad Augias). L’altro è sostanzioso: Praz nel 1945 pubblicherà presso le edizioni di Documento – per le quali escono, di Moravia, Agostino e La Speranza – una prima versione, breve nel testo e senza illustrazioni, di un altro suo saggio capitale, Filosofia dell’arredamento, proprio nella collezione diretta da Moravia, «Il moto perpetuo». Ma se il tratto comune sta nel segno del viaggio, che li vedrà tuttavia praticare modi diversi: tanto rapido e con «bagaglio leggero» (come ha scritto una volta Enzo Siciliano) Moravia, tanto indugiante su fatti di cultura, e dunque con bagaglio pesante, Praz. Anzi, a rigore, gli scritti di viaggio di Praz non possono definirsi propriamente reportage. Sono saggi nel solco della varia umanità, che crocianamente sta a significare mai dismessa curiosità per fatti diversi da quelli professionali, eppure con la professione ricchi di nessi.
Pretesti spagnuoli
Penisola pentagonale, portato da una prosa densa e piena di riferimenti, permette di porre un punto fermo: non si è mai sicuri che Praz veda. Praz va piuttosto a verificare se sono congrue le cose che ha letto, e ciò che ha di fronte gli si mostra come un libro esuberante di note, articolazioni, glosse: un autore barocco, di quelli che leggevano la metafora del gran libro del mondo fuori del suo senso metaforico. Si può credere che il miglior commento a un fatto visto potesse essere per Praz una lunga nota a piè del testo, ininterrotta ma divagante per segnali di ogni sorta: come la nota-monstre per eccellenza della nostra cultura, l’ultima posta da Santo Mazzarino a Il pensiero storico classico: una cinquantina di pagine in corpo piccolo su «L’intuizione del tempo nella storiografia classica». Però Praz, collega di Mazzarino presso l’Università di Roma, la nota l’avrebbe riassorbita nel testo, come deviazione momentanea prima di tornare al suo centro.
La copertina dell’edizione Alpes di Penisola pentagonale presenta un doppio pentagono entro cui è inscritta la cartina della penisola iberica coi colori della bandiera di Spagna: una lama di Toledo, una chitarra, un garofano e un volto barbuto, forse gitano, completano l’immagine, prima che il sottotitolo corrente tra i due lati bassi dica: «Pretesti spagnuoli». Quelle quattro immagini accostate in copertina sono destinate a rimanere l’unico tratto oleografico del libro, o ne sono il bersaglio. Il sottotitolo – testimonia una lettera a Bruno Migliorini del 31 agosto 1926, mentre Praz termina la stesura nell’anno stesso del viaggio, avvenuto in marzo – fu uno dei due titoli possibili, poi la scelta fu per Penisola pentagonale, a suo dire «futurista». Il capitolo conclusivo, «Nacchere e cicale», rivela che il luogo di scrittura fu la pineta di Viareggio. Il volume avrà nel 1955, da Sansoni, un’edizione aumentata di un capitolo, come primo tomo di Il mondo che ho visto: nel secondo tomo, sotto il titolo Viaggi in Occidente, saranno accolti il Viaggio in Grecia. Diario del 1931, il Viaggio in Corsica e pagine su Inghilterra, Francia, America, Italia; Il mondo che ho visto, nel 1982, l’anno stesso della scomparsa dell’autore, passerà a titolo dell’auto-antologia degli scritti di viaggio di Praz, composta come gran parte dei suoi libri – secondo punto fermo – attraverso una risistemazione di pagine tratte spesso da volumi precedenti con aggiunte nuove pagine, in modo che l’oggetto nel suo insieme fosse tutto nuovo per arte combinatoria. Infine, nel 1992, Penisola pentagonale avrà una ristampa presso Edt, con prefazione di Goffredo Fofi («è un libro giovanile – quantomeno nei limiti in cui Praz ha potuto esser giovane»): in copertina, chissà perché, una cartina della produzione agricola e del bestiame della penisola iberica, però vagamente arcimboldesca. Ma il tono del libro è dato soprattutto dal titolo della pronta traduzione e revisione inglese (1929), siglata a cura di M.P.: Unromantic Spain, che annuncia il rovesciamento di tutti i luoghi comuni sulla Spagna, proprio quelli che campeggiavano nelle immagini in copertina all’edizione italiana; o meglio annuncia il modo in cui Praz va a saggiare la terra delle corride.
Una verifica popperiana
Nel 1928 non è ancora nato il «prazzesco», la categoria coniata da Edmund Wilson per designare le conoscenze stravaganti di Praz (sempre oscillante tra capriccio e catasto, nell’abbreviazione di Arbasino), ma già s’intona, pronto a sperdersi in centinaia di articoli. Su «Solaria», fresco il libro, Montale scrive: in Penisola pentagonale «è possibile che abbia assistito il Praz una deliberata volontà di veder altro». Osserva Praz un quarto di secolo dopo, nell’«Avvertenza» alla seconda edizione: «se non una deliberata volontà, certo un incentivo a veder altro ci fu; io vivevo allora in Inghilterra, e in quegli anni la moda per la Spagna era là al suo apogeo; Italia e Spagna venivano un po’ messe a contrasto come Roma e Grecia presso gli archeologi di professione o dilettanti». Dunque il libro sulla Spagna nasce dall’insinuarsi di un sospetto; e il sospetto si insinua perché si è abituati a saper discernere corsi e ricorsi nelle abitudini culturali, superficialità comprese. Continua Praz: «a forza di sentirmi decantare la Spagna come genuina, profonda, e via dicendo, mi venne vaghezza d’indagare quella genuinità, di sondare quella profondità». Un atteggiamento di verifica, innescato per saturazione di opinioni tanto univoche fra loro da lasciar intravedere conformismo culturale e cialtroneria. La verifica (scientifica, popperiana) consiste nell’andare a vedere se le cose stanno davvero così, armati di sostanziose letture: Praz, s’è accennato, non va a vedere la Spagna; va a verificare quanto corrispondano al vero le opinioni che si hanno sulla Spagna. Perciò in Penisola pentagonale, per indagare e sondare, l’occhio non è quello del mero viaggiatore, come è chiaro all’autore stesso: «onde quel continuo citare precedenti viaggiatori, quel continuo ricorrere a confronti con aspetti e costumi di altri paesi, che fanno del libro il contrario di quello che, secondo alcuni, dovrebbe essere un libro di viaggi, cioè una raccolta d’impressioni ingenue, senza partito preso». Dell’intento del libro, insieme il limite e la forza, dà conto Praz stesso nell’introduzione del 1954: un «libro libresco», a tratti caricaturale, per il quale arriva adesso (dopo la Guerra civile) qualche pentimento, visibile nel corso del testo, dove Praz interviene con cuciture a vista: «un libro molto più ingenuo di quanto non paia a coloro che gli rimproverano di mancare di naïf» (l’allusione è a De Lollis), tracciato con troppa foga e con una «tavolozza esasperata».
Alcuni tra i lettori meno giovani ricorderanno lo slogan di propaganda turistica, congedato il franchismo, tra fine anni settanta e inizio ottanta: «la Spagna è differente», un po’ hemingwayano, ma irritante per molti spagnoli, che si chiedevano: ma da che cosa è differente la Spagna? Da altri paesi (un’ovvietà) o da come ci era stata raccontata così a lungo, perfino in una canzone di Milva, che però già segnalava la mutazione antropologica avvenuta col Flamenco rock? «Mi piaaacerebbe tanto visitaaar la Spaaaagna, terra di matador e di grandi toreeeri»; ma alle cinque della sera, aggiunge la Rossa, «ormai anche laggiù nella caliente Spagna / non si ballano più passi doppi o boleri» e non c’è il toro nell’arena. Penisola pentagonale inizia sulla Settimana santa di Siviglia, sulla corrida osservata attraverso gli occhioni di una Broadway blonde assetata di sangue che non vede l’ora di raccontare quel che già sapeva di dover raccontare prima di andare in Spagna. Praz si scatena: scrive in italiano, cita in spagnolo, mette i pensieri della girl in inglese. Sicché «Spagna monotona» (è il titolo del primo capitolo) prende subito forma di saggio-romanzo linguisticamente variopinto, a contrasto con il tema, la Spagna, appunto monotona, dei mistici, del teatro del Siglo de Oro, di Cervantes (alcuni tratti saranno poi ripresi dialogicamente in «Misticismo o Advocatus Diaboli», aggiunto nel ’55). In sintesi, Penisola pentagonale è una vera e propria ecfrasi ironica e scettica, un’equivalenza verbale sui generis della Spagna a metà anni venti: l’anno 1927, a proposito di equivalenze verbali, aveva visto la prima edizione del Piero della Francesca di Longhi, che rileggendosi si trovò pure lui collet monté.
Praz fa iniziare la sua vuelta dalle sale spagnole della National Gallery. E ripercorrendo quell’eccelsa pinacoteca, coglie allo stato nascente e da lontano il seme della monotonia, che solo agli spagnoli si mostra piena di infinitesimali, congrue e squisitissime differenze: «monotono è il genio della Spagna, per sublimi che siano le vette cui attinge». Il tema con annesso miscuglio di lingue sarà nel capitolo «Inglesitos», sugli albionici che sognano – sulla scia di Gautier, l’origine di tutti i luoghi comuni sulla Spagna – i misteri delle donne e dei bordelli di Siviglia (e occasionalmente di Malaga). Mentre il tema opposto e complementare, la raffigurazione della Madonna con infiniti nomi, subito accennato, sarà sostanziato in «El Camarín».
In Penisola – ha scritto Siciliano nella miscellanea Praz vent’anni dopo curata da Franco Buffoni – Praz «dà per sconfitta la prosa d’arte» – che pure sembrerebbe attingere qui uno di suoi picchi più intensi – grazie al «suo piglio specifico e ilare, spogliare la propria mente di ogni teoria e accostarla sempre al concreto», con un’aggiunta di «cinismo sano». Tale cinismo, si può dire, diventa in Praz analitico con «Sangue, voluttà, morte», dove le dottrine del «pantaurismo» si mostrano visione della vita ossessionata dalla fissazione per il toro in sostituzione della femminilità: «non so bene se il pantaurismo sia una forma di religione o non piuttosto di psicopatia sessuale». Un nodo psichico insomma degno di Krafft-Ebing, diremmo, percorso in chiave cattolico-morbosa e ancora sul diapason della monotonia. Praz si esercita in questo capitolo, con un cartone preparatorio, al libro a venire: qui «è contenuto il nucleo di ciò che poi diventerà Romantic Agony, come venne intitolato in inglese La carne» (così in un’intervista a Gnoli). Intanto l’esergo da Nietzsche e ampie citazioni in francese non consentono nessun dubbio che Penisola pentagonale sia anche una riproduzione della babele delle lingue, tanto da rendere forse vero un aneddoto riferito al Professore, l’Illustre Poliglotta: «Che cosa sta leggendo?» «Guerra e pace» «In russo?» «Perché, è scritto in inglese?».
Il tratto ornamentale arabo
Tra il conoscere per differenza e il conoscere per analogia, che sono i due modi del viaggiatore, a Granada («città del sole e dei fior»: citata Milva, lasciamo stare l’acuto di Claudio Villa, visto che è una canzone messicana del 1932, da tanti strillata), di fronte all’Alhambra Praz ripensa al paesaggio toscano di San Miniato: «illusione, in ogni caso, non soltanto mia, ché leggo averla condivisa nientedimeno che il Berenson». Il tratto arabo è – occorre dirlo? – monotono sotto «un’apparenza di varietà infinita», al modo delle Mille e una notte: «può parlarsi di architettura araba? O non è più proprio parlare di stile ornamentale arabo?». Infine: «La mia mente irrequieta d’europeo, vaga di varietà e di dramma, ripugna alla sognosa monotonia dell’Alhambra e della Cartuja». Meglio una cattedrale romanica. E anche Granada è congedata.
«La mente irrequieta d’europeo» non è una formula escogitata lì per lì. In una lettera a Eliot del 31 gennaio 1927, invitando il poeta a pubblicare senza esitazioni le sue Clark Lectures, Praz osserva: «Sarà un libro di critica che si leggerà come un libro di narrativa: scrivendo il suo libro lei scriverà la storia della sua mente. E la sua mente, temo, mi interessa ancor più di Donne, Crashaw e tutti i rispettabili defunti». Così è per Penisola, che Praz sta congedando; così sarà per La carne, che già urge. Che Praz stia scrivendo la storia della propria mente, è detto a chiave in «Il miracolo di Segovia». Nella Cattedrale, di fronte a «una Discesa dalla croce per opera del michelangioleggiante Juan de Juní», Praz si svela, getta le armi, si dà per vinto, confessa e dice che la storia della propria mente si può fare solo raccontando: «Qual gusto perverso spingesse lo scrivente a desiderare di vedere quella convulsionata scultura, lo ignoro; a dire che fu amore per l’arte bisognerebbe poi dimostrare il valore artistico dell’oggetto in questione, e sebbene io non lo abbia visto che in un lampo, posso assicurare che di valore artistico, quell’oggetto, ce n’ha pochino. Diciam meglio, che fu il diavolo, per il tramite del malocchio del mendicante tuerto, che mi suggerì quel desiderio. (Ma falla meno lunga e racconta!)». Non avrà avuto ragione Croce, allora, a sostenere che la Carne riguardava più il costume che l’arte? O la disquisizione è impraticabile? Infine, è vero, in Praz «c’è anche il fiato del narratore imitativo che dalla pittura viene preso al laccio», scrive Siciliano: «Penso allo Zurbarán che è impossibile non intravedere all’aprirsi del capitolo intitolato Trionfo della morte» (anche se il seguito è larga ecfrasi della tavola di Pieter Bruegel il Vecchio al Prado). Il passo è questo: «Ampio, il viso di terracotta rovente, il naso come un corimbo di giacinto violetto, nei suoi paramenti purpurei siede l’arcivescovo nell’alto scanno scarlatto, incorniciato dalle volute barocche polpute come frutti tropicali». Ci si può perdere a immaginare quanto un passo così abbia riecheggiato, in contrasto dilaniante, nella testa dell’autore dei Trionfi (dove c’è l’intermezzo sull’ultima processione di san Carlo), in Gianni Testori, scrivendo di Tanzio da Varallo: «Il Vescovo, niente più che una crisalide ravvolta nello splendore delle porpore, lascia per l’ultima volta il Monte; traballando sui piedi che non han più forza, scende giù per l’erta; il suo viso, affilato, suda quasi fosse già chiuso in un’urna» e così via, corteo compreso, come in Praz, ma passando dalla carne alla cenere.