In una recente tavola rotonda sul tema «etica della diserzione» Alisa Del Re faceva notare che non esiste il femminile del temine «disertore» e che, più in generale, le parole che hanno a che fare con la guerra, pur essendo la stessa femminile, nella maggior parte, sono maschili. Vi è quindi una estraneità storica tra donne e guerra? Direi piuttosto che la relazione atavica donna – uomo – guerra ha subito profondi cambiamenti dovuti a differenti fattori. Se nelle guerre antiche, quelle degli assedi e delle trincee, gli uomini in armi difendendo le città e i territori, difendevano anche le «loro» donne dal divenire bottino di guerra, le guerre moderne con l’uso dell’aviazione, dei droni e dei missili espongono tanto i militari quanto i civili allo stesso destino, per non parlare del rischio atomico.

È PERÒ SINGOLARE che fin dall’antichità l’immaginario maschile per esprimersi contro la guerra ha dovuto creare figure femminili come Lisistrata o Andromaca, quest’ultima più legata alla sfera degli affetti privati ma forse, proprio per questo, antidoto particolarmente efficace contro la guerra dove più che altrove, la dimensione pubblica e la sfera privata diventano un tutt’uno.
Più recentemente, a proposito del rapporto tra donne e guerra, si è fatto riferimento al libro del premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic La guerra non ha il volto di donna.
Esattamente un anno fa su questo giornale, Renata Pepicelli, nell’intervenire sul libro di Aleksievic, rifiutando il banale accostamento tra donne e pace, approfondiva la distanza dai luoghi di decisione da parte delle donne come uno dei motivi del rifiuto della guerra e, tuttavia, concludeva: «credo che oggi più che dire che le donne sono contro la guerra, sarebbe giusto dire che il femminismo, o meglio ancora, un certo pensiero femminista è contro la guerra».

PROPRIO DA QUI prende le mosse la riflessione che Maria Luisa Boccia ci offre con il suo libro: Tempi di guerra, riflessioni di una femminista (Manifestolibri, pp. 96, euro 10), una raccolta di scritti dal 1999 ad oggi che ripercorre un quarto di secolo in cui le guerre sono state incessanti ma che in Europa, secondo una narrazione superficiale quanto errata, è sembrata inverarsi soltanto con l’invasione dell’Ucraina. È stata la guerra dei Balcani, infatti, ad aver segnato il ritorno della guerra in Europa e la diretta partecipazione dell’Italia che, va ricordato, ha partecipato a tutte le guerre, a cominciare dalla prima guerra del Golfo, ininterrottamente dal 1990 ad oggi.

L’autrice, nel mettere in relazione queste scelte politiche con l’articolo 11 della Costituzione al fine di svelare l’ipocrisia che si nasconde nel ritenerle compatibili, osserva lo scivolamento del linguaggio che ha portato a non nominare mai la guerra, neanche quest’ultima, la cui definizione oscilla tra operazione militare speciale e aiuti all’Ucraina e che, in precedenza, aveva visto accostate alla parola guerra aggettivazioni quali: preventiva, umanitaria, esportatrice di democrazia. La guerra, quindi, va nominata per assumere tutte le responsabilità che essa comporta, a cominciare, per noi, dalla messa in discussione del patto Costituzionale.

La ricerca, poi, si sviluppa nel comprendere come la guerra si impadronisca delle menti al punto da ritenere la stessa ineluttabile o, al massimo, il male minore, fino ad un approdo acritico che non consente alternativa alcuna e, come antitesi, un pacifismo impotente al limite dell’intelligenza con il nemico.

QUESTA RICERCA si avvale di riferimenti, esperienze, interlocuzioni significative. Tra i primi, Pietro Ingrao e i suoi interventi e scritti, a cominciare dal discorso alla Camera che motivò il suo voto contrario alla partecipazione alla guerra contro l’Iraq, seguito da Simone Weil, Hannah Arendt, Carla Lonzi, Luisa Muraro, Virginia Woolf.
L’ interlocuzione con Norberto Bobbio è particolarmente interessante a partire dal volume di quest’ultimo Il problema della guerra e le vie della pace, cui seguono quelle con Etienne Balibar e Rosi Braidotti sull’Europa e il concetto di «potenza» che apre orizzonti nuovi, a partire da tutte quelle esperienze, anche politiche, che non necessariamente si sono avvalse del potere e del dominio, e che possono essere promettenti per un pensiero che includa la pace nell’esperienza e nella storia umana, non solo come parentesi tra una guerra e l’altra che caratterizza, purtroppo, ancora oggi, il modo attraverso cui si tramanda la storia.

Infine, il pensiero e la pratica del femminismo della differenza, pensiero e pratica che non è esclusivamente delle donne per le donne; una ricerca che non ha certezze e non dà certezze ma parte dalla funzione positiva della conflittualità sganciandola dall’opposizione distruttiva amico – nemico e che guarda con interesse a tutte quelle forme di lotta che rifiutando la violenza e la sopraffazione dell’altro accolgono le diversità e mettono in gioco i corpi, i propri corpi che da oggetto possono divenire soggetti. Il libro si conclude valorizzando recenti proposte che, partendo da questi presupposti, indicano possibili forme di resistenza non violenta alla guerra e, insieme, la necessità di continuare nella ricerca.