È ormai chiaro che i libri che parlano delle donne – così come quelli che parlano di gay, lesbiche, trans, per non parlare di giovani, migranti e precari – si dividono in due filoni: quelli che concorrono al consolidamento degli ordini discorsivi che presiedono alle varie forme di soggettivazione mainstream (in un modo o nell’altro funzionali, cioè, all’ideologia dominante); e quelli che fanno analisi critica, e critica sociale. In questo secondo filone si colloca il libro che Anna Simone ha appena pubblicato per Einaudi, I talenti delle donne: una riflessione elaborata a partire da ventuno interviste con donne dalle biografie tra loro assai diverse, provenienti dalla politica (Bonino, Catizone, Cucchi, Puppato), dalla ricerca (Del Re, Leccardi, Napoleoni, Saraceno), dalla cultura (Melandri, Rangeri), dal sociale (Camusso, Sentinelli). E vi si colloca nonostante la sfida di pubblicare una riflessione critica, anche controcorrente, con un editore così prestigioso, non fosse semplice: il rischio di non dire nulla di «pericoloso», per «parlare a tutti» è in questi casi sempre in agguato.
Al contrario, appare chiaro fin dall’indice che la riflessione consiste in un lavoro decostruttivo nei riguardi del fascino che le retoriche dominanti in materia di «donne» continuano a sortire non solo a livello mediatico, ma proprio a livello di politiche implementate: dalle aporie dell’autodeterminazione agli argomenti sempreverdi pro o contro le quote, dalla più becera vittimizzazione ai reali problemi di welfare, dai limiti del formalismo alle insidie del «merito», è tuttavia nell’individuazione dello scarto all’interno del quale queste decostruzioni devono essere calate che l’analisi di Simone mette a tema un aspetto cruciale: il mutamento di paradigma intercorso nel passaggio da una società «patriarcale» di tipo repressivo a una neoliberale in cui la modalità operativa del potere è principalmente di tipo «paternalista».
Meno accidentata e più scivolosa sarebbe stata resa infatti da questo passaggio la relazione tra le strutture di potere e l’eccedenza femminile, al punto che Simone propone di concettualizzare l’accresciuta complessità al di fuori dai binarismi (eguaglianza/differenza, inclusione/esclusione, ecc.) che ne hanno storicamente strutturato l’esperienza. Se il patriarcato si fonda sull’esclusione delle donne dalla sfera pubblica, e su una distinzione tra pubblico e privato che trae linfa proprio dalla mistificazione della differenza, il paternalismo invece scombina e a un tempo ricombina tutto ciò, poiché si esplica nella produzione delle modalità che determinano proprio l’inclusione differenziale delle donne. Si esplica, in fondo, in una produzione, in senso foucaultiano, delle stesse soggettività femminili da includere: un’inclusione il cui criterio, lungi dall’essere «politico», ha più a che fare con la messa a valore dei corpi e delle attitudini femminili, testimoniata dalle retoriche sul fattore D o sulla womenomics o dal diversity management. E dunque cosa resta, in questo passaggio, degli spazi di libertà e di desiderio – i quali o sono categorie politiche o non sono nulla – che le donne hanno conquistato con le lotte degli ultimi due secoli? Quali forme di resistenza articolare nel momento in cui simulacri di libertà e di desiderio sono piegati a quella che, per citare Carla Lonzi, sembra essere l’inclusione ricattatoria delle donne alla grande sconfitta dell’Uomo – ben testimoniata dal tracollo economico e dallo smantellamento del welfare al quale le donne sono chiamate a mettere al servizio di tutti, in forme varie, la propria funzione strumentalmente «redentiva»?
È in fondo questa la domanda che innerva le pagine del libro, alla quale l’autrice risponde partendo da sé, così come dalle esperienze proteiformi delle intervistate. Ma alla quale risponde soprattutto guardando a quella genealogia femminista che con intelligenza ci ricorda che «se non si cambiano all’origine le modalità attraverso cui organizzare la società», se si rinuncia alla radicalità, le nostre ben intenzionate parole e azioni si espongono alla più pura strumentalizzazione. Che all’origine di tutto ciò vi sia più un «problema maschile» che uno femminile – ossia un problema che parte dalla relazione (eteronormata) tra i generi e che sfocia nelle diseguaglianze strutturali e viceversa –, e che questo problema si manifesti nella crisi di tutta un’organizzazione sociale, è forse l’unica certezza che l’autrice sente di affermare, in un campo aperto di salutari domande. Che il patriarcato e il paternalismo, al netto dello scarto, condividano d’altronde la stessa radice etimologica (pater, padre) non sarà una fatalità.