I romanzi raccontano storie e le storie si svolgono nel tempo; ma come fanno i romanzi rappresentare il tempo? Su questo interrogativo si sono esercitati alcuni dei critici più importanti del Novecento (bastano i nomi di Michail Bachtin e di György Lukács) e dalle riflessioni al riguardo sono scaturite alcune categorie interpretative di largo impiego, come il ricorrente «cronotopo». Degli studiosi italiani che si sono occupati della questione in modo più intelligente e sistematico, fa parte Marco Praloran. Formatosi alla scuola padovana di Pier Vincenzo Mengaldo, egli è stato professore nelle Università di Udine e di Losanna; ci ha purtroppo lasciato troppo presto, nel 2011, quando però i suoi saggi sul romanzo cavalleresco e sul Canzoniere di Petrarca erano già punti di riferimento sicuri e generalmente riconosciuti. Grazie alla pietas editoriale di Nicola Morato, alcuni suoi scritti tornano oggi raccolti in un volume (L’orchestrazione del racconto Altri scritti cavallereschi, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, pp. 368, euro 54,00), che permette di tornare su alcuni temi centrali della tradizione narrativa occidentale, osservati sul lungo percorso che dal Medio Evo arriva alla modernità.
Sebbene gli studi siano stati pubblicati in sedi e in momenti diversi, la lettura del libro può procedere in modo continuativo, perché il ragionamento di Praloran si sviluppa in modo coerente, per addizione di prospettive e di casi esemplari, ed è sospinto da una scrittura affabile, immune da vezzi accademici. Anche l’apparato erudito è condensato efficacemente nel testo, mentre le note sono ridotte al minimo supporto bibliografico necessario.
Nella visione complessiva di Praloran, gli inizi del racconto occidentale moderno risagono al Medio Evo francese e ai suoi romanzi arturiani. In una bellissima pagina, lo studioso ricorda un episodio del Chevalier de la charrette di Chrétien de Troyes: Lancillotto e Galvano giungono a un crocicchio e si separano, dirigendosi verso avventure differenti. Qui «si realizza virtualmente una nuova modalità narrativa del racconto occidentale», perché lo scrittore non può riprodurre simultaneamente le due storie che si generano, e dunque narrerà l’uno dopo l’altro episodi contemporanei che si svolgono in luoghi diversi. Così l’imitazione lineare del tempo entra in crisi, ma si aprono i terreni delle rappresentazioni alternative, dell’intreccio e dell’illusione: un nuovo mondo di possibilità che molti esploreranno nei secoli seguenti. Nelle mani degli autori migliori, il tempo potrà artificiosamente rallentare o accelerare, acquistare o perdere determinatezza, fino ai virtuosismi di Dickens e di Proust, cui Praloran dedica alcuni paragrafi di notevole acutezza.
Nell’evoluzione complessiva di questo disegno, la Ferrara di Matteo Maria Boiardo e di Ludovico Ariosto è uno snodo centrale. Non va dimenticato che, negli ultimi anni del Novecento, Praloran è stato tra coloro che hanno riportato Boiardo nella zona più illuminata dell’italianistica, dopo secoli di sottovalutazioni indebite. E il suo recupero ha preso le mosse proprio dall’analisi della complessa struttura a intreccio dell’Inamoramento de Orlando (titolo verosimilmente d’autore e da preferire al vulgato Orlando innamorato): un’originale rielaborazione dell’entrelacement tipico dei romanzi francesi del Duecento. Boiardo per primo riprende e adatta lo schema, attuando una profonda ibridazione di modelli. È abbastanza risaputo che gli eroi carolingi (per primo Orlando, che inopinatamente si innamora) sono calati in un inusuale contesto erotico-avventuroso tipicamente arturiano, ma c’è di più: «emozione e sorpresa» dei lettori sono esaltate e moltiplicate grazie alla scaltrita amministrazione del tempo narrato, in una generosa profusione di trabocchetti e suspence. Questa utile eredità è raccolta da Ariosto ai primi del Cinquecento; ma in breve tempo l’Italia è cambiata: armi e battaglie hanno assunto un significato meno letterario.
Quasi simbolicamente, Boiardo muore nel 1494, l’anno della calata in Italia di Carlo VIII: fine dell’equilibrio miracoloso dei piccoli stati e delle loro corti. Il classicista Ariosto si ritrova fatalmente più lontano dall’immaginario cavalleresco antico e rafforza il suo ruolo di regia: «non più tanto il riso franco e aperto di Boiardo, ma un’ironia allusiva, che sottolinea il controllo dell’artefice sul mondo narrato», quando il mondo vero è invece minacciosamente fuori controllo. Praloran, lettore di testi e indagatore di strutture, non si addentra mai troppo nel merito storico e biografico dei moventi, eppure rimane l’impressione di una sua intimità con gli autori: quella conversazione accogliente, fissa nella memoria e nella nostalgia di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo.