Un hotspot per piccoli migranti. La fedeltà alle rigide regole imposte da Bruxelles e l’egoismo di alcune regioni possono portare anche a questo, un mega centro lungo la costa di Pozzallo, in provincia di Ragusa, occupato prevalentemente da minori non accompagnati. Giovani e giovanissimi che in questi giorni rappresentano la maggioranza della popolazione della struttura siciliana, 120 sugli attuali 140 migranti reclusi.

Provengono da Marocco e Egitto (una trentina di egiziani sono arrivati tutti con lo stesso barcone) ma anche da Eritrea, Mali, Somalia. Praticamente tutti hanno fatto richiesta di asilo e adesso aspettano di essere trasferiti. «Vivere in queste strutture non è facile, si possono passare intere giornate senza fare niente», spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani di palazzo Madama al termine di un sopralluogo nell’ex centro di accoglienza. «Il problema è che manca un sistema centralizzato in grado di coordinare i posti liberi nelle strutture di accoglienza sul territorio nazionale. Molte regioni – prosegue Manconi – dicono di non avere posti liberi perché non vogliono accoglierli, di conseguenza invece di restare nell’hotspot al massimo per 72 ore, come previsto, qualcuno ci resta anche quattro settimane». Servirebbe una banca dati centralizzata che raccogliesse le disponibilità delle strutture di seconda accoglienza per i minori. Invece non c’è e quindi tutto è affidato alla buona volontà delle prefetture, che in una sorta di autogestione si tengono in contatto aggiornandosi sui posti che si liberano in ogni regione.

Gli hotspot sono il prezzo imposto dall’Unione europea a Italia e Grecia per la crisi dei migranti degli ultimi due anni e mezzo. L’idea di creare nuove strutture dove contenere l’ondata di migranti in arrivo venne alla Francia l’anno scorso e fu subito fatta propria dai leader dei 28 paesi membri. Chi arriva in Italia viene identificato e selezionato, dividendo i migranti economici dai rifugiati. L’anno scorso a Pozzallo sono sbarcati in 15 mila, un decimo esatto del totale degli arrivi del 2015. Dal 1 gennaio al 12 maggio di quest’anno, invece, ci sono stati 17 sbarchi, per un totale di 5.221 migranti, 4.505 uomini, 716 donne, 878 minori non accompagnati e 150 accompagnati. La maggior parte proviene dalla Nigeria (929), Gambia (515) Senegal (438), Eritrea (434), Guinea (439), Mali (326) e Marocco (237).

Quello che era il centro di prima accoglienza il 19 gennaio di quest’anno è diventato il terzo hotspot italiano (su cinque). Viaggio di sola andata, probabilmente, visto che oggi appare davvero difficile un ritorno alle origini. E non senza problemi. A dicembre del 2015 Medici senza frontiere ha messo fine a ogni intervento nella struttura denunciando «le condizioni precarie e poco dignitose» in cui venivano accolti migranti e rifugiati dopo gli sbarchi. Il 27 aprile scorso un’altra organizzazione, Terre des Hommes, ha denunciato invece le condizioni di sovraffollamento del centro, tali da rendere «non possibile garantire un’attenzione specifica ai migranti più vulnerabili come mamme con bambini, donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati». E a marzo anche l’hotspot di Pozzallo, insieme a quelli d Lampedusa e Trapani, è finito in un dossier presentato al Senato da alcune associazioni riunite nel Tavolo nazionale asilo, tra cui Consiglio italiano rifugiati, Arci, Comunità di Sant’Egidio e Caritas, in cui si parla di «respingimenti arbitrari» e di «negazione dell’accesso alla procedura d’asilo e l’uso della forza per l’identificazione» delle persone.

In questi giorni nell’hotspot la situazione è decisamente più calma, anche se non mancano le proteste, che riguardano soprattutto il cibo e la mancanza di posti sufficienti ad accogliere donne immigrate, ma anche il timore di molti migranti di essere rispediti nei paesi di origine. «Noi vogliano restare qui», dicono i cartelli scritti a penna e mostrati alle telecamere da molti giovani insieme alle ciabatte rotte. «We want to learn», vogliamo imparare, ripetono affollandosi contro le sbarre di ferro che circondano il centro. Cosa particolarmente positiva è la presenza di molte organizzazione umanitarie: Unhcr, Save the Children, Oim e Terre des Hommes lavorano all’interno dell’hotspot, mentre Emergency interviene soprattutto al momento degli sbarchi. Molti migranti e rifugiati presentano i segni delle violenze subite durante il viaggio verso l’Europa, soprattutto in Libia durante le settimane passate in attesa dell’imbarco. E non mancano i casi di donne che denunciano agli operatori di essere state vittime di violenza sessuale da parte di trafficanti di uomini.

Nonostante sia una struttura chiusa, ai piccoli migranti viene concesso un permesso per uscire almeno per qualche ora. Verso sera è facile vederli mentre in gruppi fanno ritorno al centro. Prima di lasciarli entrare gli agenti e i militari che presidiano l’ingresso controllano i fogli identificativi rilasciati dalle prefetture e li perquisiscono. «Ma noi dall’Italia non vogliamo andarcene», fanno in tempo a ripetere prima che il cancello si chiuda alle loro spalle.