Usare la potenza di fuoco dell’avanguardia in esilio per interpretare la Polonia per mezzo delle arti dopo la transizione al capitalismo: è questo il punto di partenza della mostra “Pozna Polskosc” un’espressione traducibile in italiano con il neologismo di “tarda polonicità”, termine coniato dall’attivista critico Tomasz Kozak per raccontare l’identità della propria nazione negli ultimi venticinque anni. Forse non un numero a caso, sono proprio 89 le opere inserite nel catalogo dell’imponente collettiva organizzata nelle sale del Centro d’Arte Contemporanea all’interno del Castello Ujazdowski a Varsavia (visitabile fino al prossimo 6 agosto). I curatori Ewa Gorzadek e Stach Szablowski non hanno avuto paura dei salti temporali dando carta libera a Maurycy Gomulicki nell’allestimento di un’anticamera dedicata a Stanislaw Szukalski, cannone dimenticato dell’avanguardia polacca emigrato come tanti a Chicago insieme alla famiglia prima di ritornare in patria negli anni venti. Nel 1940 ritorna negli Stati Uniti in California e diventa amico di famiglia dei DiCaprio. All’inizio del nuovo millennio l’attore Leonardo che lo ricorda ancora con l’affetto di un nipote per il nonno, ha finanziato una retrospettiva dedicata al maestro polacco presso il Laguna Art Museum. Figura singolare nel panorama artistico del primo dopoguerra, Szukalski resta un fantastico cane sciolto, lui esponente di un singolare surrealismo nazionalista che ha seminato moltissimi progetti per raccogliere poco. Spirito belligerante, Szukalski sognava in esilio una Polonia militarista ancora più estesa, proprio come il generale Pilsudski alla guida del paese dopo la ritrovata indipendenza. Ma basterebbe guardare Cecora (1927), una testa in alabastro per capire che l’opera di Szukalski non ha nulla del neoclassicismo omologato e omologante di un Arturo Dazzi o di un Arno Breker. Cecora è un volto-feticcio con gli occhi spalancati e la superficie rigata dalla lacrime che mescola fantasia e motivi pre-colombiani, lontano dalla banale levigatezza e della pulizia formale della statuaria nazifascista. Purtroppo di Szukalski non restano che pochissime opere anche a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, la maggior parte delle quali è conservata oltreoceano. Lo spettro del militarismo e della grandeur polacca nel presente è tutto da stanare anche in altri lavori in mostra quali la replica del baldacchino di Pilsudski “spiaggiato” come una balena, esposto alla Biennale di Architettura di Venezia nel 2014 e riproposto adesso in una sala del maniero Ujazdowski. E che dire della rievocazione delle velleitarie pretese coloniali d’antan della Polonia sul continente africano nell’installazione ironica di Janek Simon in The Year of Poland in Madagascar (2006-2017)? Dall’utopia della polonicità nel vestibolo di Szulalski alla tarda polonicità il passo è molto breve. L’aquila nera di gomma realizzata di Grzegorz Klaman sembra voler liquefare l’animale-simbolo della nazione polacca presente anche sulle sue bandiere, o presunte tali, come il color field painting bianco e rosso di Mark Rothko che viene “polonicizzato” da Ewa Sadowska nel video White Above Red (2012), nel quale l’artista polacca canticchia anche la melodia dell’inno nazionale polacco. E una mostra di ampio respiro quella in scena a Varsavia che affronta figure, simboli ed eventi della Polonia di oggi in tutta la loro problematicità. La scultura Transparent (2010), ancora di Klaman, replica le fattezze di Lech Walesa in resina traslucida. Ma la figura del leggendario sindacato di Solidarnosc non è completamente trasparente essendo illuminata da un fascio di luce ultravioletta: un’allusione al passato di Walesa, considerato opaco da una parte dell’opinione pubblica del paese a causa del suo passato da informatore per i servizi segreti comunisti, prima della sua ascesa alla guida del primo sindacato libero nei paesi del ex-blocco sovietico. Ancora sullo stesso tema Krzysztof Bednarski ha riletto a distanza di anni Victoria-Victoria (1983-2006) una scultura celebre in patria raffigurante una mano gigante con le dita a V mozzate per rievocare la repressione di Solidarnosc negli anni della legge marziale. Dopo molti anni le punte delle dita sono rispuntate. Eppure, sono proiettate su uno schermo come mere protesi bidimensionali, facendo sorgere una domanda: la società polacca ha davvero vinto su tutti i fronti dopo il 1989? Colpisce anche il pugno chiuso in segno di lotta della scultura di Female Bomber (2004) di Anna Baumgart che rappresenta una donna incinta nascosta dalla maschera di un maiale in un paese in cui la strada per i diritti delle donne è, come prima più di prima, tutta in salita. Difficile ignorare anche la figura di Giovanni Paolo II che si affaccia in uno spettacolare ritratto di Piotr Uklanski per la Biennale di San Paolo 2004, messo in piedi con una coreografia fatta di 3500 soldati brasiliani immortalati dall’alto. Ancora Karol Wojtyla e i suoi doppioni kitsch nell’installazione Santo Subito (2007/2017) ad opera di un artista originario della costa baltica che si nasconde sotto lo pseudonimo di Peter Fuss. La figura del pontefice, qui abbinata ad un video che propone tutta la parafernalia e i gadget dedicati alla sua persona, è ridotta a scultura da giardino riproposta in serie ma con colori diversi. Emblematico, a tal proposito, anche il nano da giardino che fa compagnia su una panchina alla grande studiosa di letteratura polacca Maria Janion in una composizione camp di Igor Omulecki. Più che annunciare la fine del spirito romantico in patria, la Janion nei suoi scritti annuncia l’impossibilità di metterne in pratica i presupposti nella Polonia pluralista dopo il 1989. E passato il tempo delle polke, delle mazurke e delle cavallerie eroiche di un Wajda. Paradossalmente, proprio attraverso l’interrogazione, la svendita o la mortificazione dei simboli del romanticismo, gli artisti di oggi sembrano confermare lo spazio sacro che esso ancora occupa nell’immaginario nazionale. Impossibile fare a meno della catastrofe aerea di Smolensk che ha provocato le reazioni più disparate nella società polacca, e con un lutto tutto ancora da elaborare per molti cittadini. Per Wlodzimierz Pawlak la tragedia viene condensata nell’immagine un aereo di carta dipinto su tela in un motivo volutamente banale e ai limiti dell’astrazione. Molto più significativo il video di Artur Zmijewski Catastrophe (2010), esempio rouchiano di cinema verité filmato nelle strade di Varsavia all’indomani della tragedia. Chiudono la rassegna due sezioni dedicate alla ricerca teatrale e al cinema polacco a partire dagli anni novanta. La splendida serie di blob ghezziani curati da Jakub Majmurek, analizza il realismo a cinema a partire dagli anni novanta dopo la transizione all’economia di mercato. Si è passati così dal cinema dell’ansia morale a quello delle preoccupazioni materiali. Un cinema nel quale non c’e più posto per operai o intellettuali. I nuovi protagonisti immortalati sul grande schermo seguono le direttrici della merce e l’inafferrabile plusvalore di godimento. E innegabile che la nozione di tarda polonicità applicata alle arti inauguri un cantiere aperto e fecondissimo per interrogare l’identità della Polonia post-comunista.