Puntuale come un orologio svizzero, anche quest’anno, alla vigilia del World Economic Forum di Davos, arriva il Time to Care di Oxfam, rapporto che fotografa la distribuzione della ricchezza a livello globale.

I numeri sono impressionanti. Nel mondo, poco più di duemila super-ricchi detiene una ricchezza superiore a quella posseduta da 4,6 miliardi di persone messe insieme. E la metà più povera della popolazione mondiale, circa 3,8 miliardi di persone, deve accontentarsi dell’1% della ricchezza disponibile. Addirittura, il patrimonio delle 22 persone più ricche del pianeta supera quello posseduto da tutte le donne del continente africano.

Sempre peggio. L’economia ristagna, ma i ricchi sono sempre più ricchi e sempre più individui vengono risucchiati dal vortice della povertà.

Non vanno meglio le cose in Italia. Basta dire che nel nostro Paese la somma della ricchezza posseduta dal 10% della popolazione (sei milioni di persone) non raggiunge quella ad appannaggio di soli tre miliardari (Ferrero, Del Vecchio e Pessina). Più in generale, Oxfam rileva che nel Belpaese gli ultimi venti anni sono stati distruttivi dal lato dell’equità sociale: la quota di ricchezza nazionale in mano al 10% più ricco è aumentata del 7,6%, mentre quella della metà più povera della popolazione è andata sempre più assottigliandosi, riducendosi addirittura del 36,6%. Donne e giovani quelli più penalizzati. Fa impressione leggere che oggi il 30% dei giovani che lavorano non guadagna più di 800 euro lordi al mese e che il 13% di essi vive in condizione di povertà lavorativa. E che l’11% delle donne italiane ancora oggi è costretta a scegliere tra il lavoro e la cura dei figli (lavoro non remunerato).

Un vero disastro. Che imporrebbe un ripensamento delle politiche economiche, anche per risollevare, insieme ai redditi delle famiglie, un’economia che annaspa. Perché c’è una stretta correlazione tra il crescente divario tra i redditi e l’andamento dell’economia. È una storia vecchia. Dacché l’economia si è emancipata come disciplina autonoma rispetto alla filosofia, il tema del rapporto tra povertà e crescita è stato centrale nella riflessione dei più noti economisti europei. Prima di Joseph Stiglitz, già Thomas Malthus, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, faceva rilevare, in polemica con Jean Baptiste Say, che la crescente povertà degli operai poteva condurre la nuova economia industriale a frequenti crisi di sovrapproduzione. Non era proprio vero, in pratica, che fosse l’offerta di beni a determinarne la domanda. Per Malthus, però, la colpa era degli stessi operai che facevano troppi figli. Un po’ come adesso, quando si dice che le nostre privazioni sono dovute al fatto che negli anni passati «abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità».

Un argomento utile alla conservazione dello status quo. Necessario per non mettere in discussione, ad esempio, gli attuali regimi di imposizione fiscale, cambiati negli anni a tutto vantaggio dei ceti più abbienti. O per scartare sdegnati l’ipotesi dell’introduzione di una tassa patrimoniale aggiuntiva sulle grandi ricchezze. Se proprio bisogna dare un segnale, meglio agire dal lato del «cuneo fiscale». Per carità, 100 euro in più in busta paga per milioni di lavoratori dipendenti sono un’ottima cosa, ma in questo modo i soldi necessari all’operazione dovranno essere risparmiati da un’altra parte. Non c’è, in questo intervento, una vera e propria politica redistribuiva, dall’alto verso il basso, che solo una maggiore progressività del fisco potrebbe garantire. E rimane il problema del lavoro povero precario, a intermittenza.

D’altro canto, il problema delle disuguaglianze chiama in causa anche la debolezza del welfare. Chiarissimo il rapporto Oxfam da questo punto di vista. C’è un problema di accesso alle cure, all’istruzione, ai servizi della mobilità, a sussidi adeguati, che solo il recupero di risorse da un’equa distribuzione del fisco può risolvere. E invece, nel nostro Paese si verifica il caso contrario: in proporzione, i poveri pagano più tasse dei ricchi. Tasse allo stato, tasse ai comuni, tasse alle regioni, tributi locali sempre più esosi che pesano come macigni sui magri redditi delle fasce più povere della popolazione.

A più di duecento anni dagli albori della società industriale, siamo di nuovo al punto di partenza. La questione della distribuzione iniqua della ricchezza tra salari, profitti, interessi e rendita non è soltanto un tema per gli studiosi della materia economica ma la vera questione politica dei nostri tempi.