Dall’esplosione della crisi la Germania è additata dagli antieuropeisti e dai no euro come il satrapo che dominerebbe il continente mentre dai fautori dell’ordine unionista come modello di sviluppo. In entrambi i casi è considerata un’eccezione. É innegabile che tali interpretazioni colgano una parte di realtà, ma vorrei provare a riflettere sullo strano caso tedesco a partire da un altro angolo visuale.

Se il più grande paese europeo, quello con la principale industria, svolge un ruolo di dominio o persino di locomotiva per l’intero continente allora dovrebbe avere delle performance migliori di quelle in corso. Una volta addomesticata la crisi dei debiti sovrani la Germania, invece, ha via via ridotto la crescita del proprio Pil fino a sfiorare nuovamente la recessione nel 2014. Il recente dato del terzo trimestre, pari a +0.1% dopo il precedente pari a -0.1%, ci parla di un’economia sostanzialmente ferma o, perlomeno, che cresce ben al di sotto delle necessità interne e ancor meno di quelle del resto del continente. Ma tale tendenza non è accidentale. Agli inizi degli anni Novanta la Germania era considerata «la malata d’Europa», cresceva a tassi inferiori non solo agli altri principali paesi, ma persino ad alcuni oggi definiti Piigs.

Dalla fine degli anni Novanta, invece, un susseguirsi di controriforme del mercato del lavoro e del welfare ha cambiato i connotati dell’economia teutonica. É esploso il numero di precari (saliti al 25% degli occupati), è aumentato il numero di addetti pagati meno e a tempo determinato , è diventato più facile licenziare, sono state ridotte le pensioni.

La flessibilizzazione del mercato del lavoro è stata ideata per fronteggiare i picchi di produzione, per venire incontro alle esigenze dell’impresa export oriented, ma ha finito per sostituire occupazione stabile e meglio retribuita con impieghi precari. Certo il numero di disoccupati è decisamente sceso, ma in un clima diffuso di incertezza sociale. L’economia solo così è riuscita a ripartire dentro un nuovo inserimento nelle dinamiche globali.

La Germania è diventata più competitiva, risparmia, investe all’estero, ma al prezzo di una diffusione delle sperequazioni socio-economiche. Contemporaneamente alcuni indicatori segnalano il permanere di un malessere anche in una logica di mercato. Una crescita sostenuta è solitamente il frutto di investimenti e aumento della produttività, ma i primi dal 2000 al 2013 sono calati dal 22 al 17% del Pil e negli ultimi dieci anni la seconda è aumentata soltanto dello 0.9% all’anno. Persino infrastrutture e sistema formativo accusano l’usura del tempo. La crescita tedesca quindi prevalentemente è la risultante di esportazioni ottenute attraverso una compressione dei costi di produzione. Il modello renano si è eclissato ed è stato sostituito da quello mercantilista. In tal senso la Germania è la prima vittima di se stessa, delle sue scelte basate su austerità e rigore.

Il modello tedesco non solo mette in pratica per sé le medesime strategie che richiede ai propri alleati, ma produce anche la medesima povertà prodotta altrove, con la differenza che in Germania esistono ancora risorse, relazioni industriali, condizioni dell’apparato produttivo che consentono di reggere la forza d’urto generata dal sistema ipercompetitivo. Pensare di erigere barriere tra noi e loro significa invece allontanare una prospettiva di relazione e connessione tra le vittime di tal meccanismo, che esistono da entrambi i lati della frontiera, che esistono nei paesi periferici, come in quelli posti al centro. Un percorso difficile, ma non aggirabile.