Alla vigilia del 130° della nascita di Ezra Pound (Hailey, Idaho, 30 ottobre 1885), il critico inglese A. David Moody pubblica il terzo volume della sua poderosa biografia del vate americano, dedicata al periodo complicatissimo della guerra, detenzione eccetera. Il titolo è infatti Ezra Pound: Poet The Tragic Years 1939-1972 (Oxford University Press, pp. XXII+654, £ 25.00). Studioso accreditato, Moody è anche biografo efficace e riesce a restituire tutta la complessità fascinosa e sconcertante dell’argomento, sicché si giustifica la monumentalità dell’impresa, quasi senza confronto per i coetanei innovatori di Pound.
I tre massicci tomi di Moody si intitolano rispettivamente The Young Genius 1885-1920, The Epic Years 1921-1939 e appunto The Tragic Years 1921-1939. Il titolo complessivo Ezra Pound: Poet è significativo perché nonostante tutto il clamore intorno ai fatti e misfatti di Pound, Moody dedica molta attenzione ai testi e non dubita, come annuncia già il titolo The Young Genius, che Pound sia fra i maggiori poeti (non solo personaggi) del Novecento. Volentieri dedica sezioni della biografia ad analisi ravvicinate delle opere più significative e a singoli volumi dei Cantos, che cominciarono a uscire nel 1925 per (non) concludersi solo nel 1968. In questo terzo volume ha il destro di parlare della sezione più memorabile dell’intero poema, i Canti pisani scritti nel 1945 durante la detenzione a Metato presso Pisa in un campo di prigionia dell’esercito Usa per migliaia di reclusi americani che dovevano essere «rieducati» e in taluni casi giustiziati. E le analisi di Moody di questi 11 canti (che portano i numeri 74-84), come anche di quelli successivi, sono convincenti e serrate. Chiaramente l’argomento gli è caro e anche lui ha passato decenni su questi fogli e ha le loro felici battute nell’orecchio e nel cuore.
Una partecipe ricostruzione fra fantasia e realtà dei Canti pisani e della loro genesi si trova anche nel breve romanzo La spia di Justo Navarro (Voland). Qui l’autore-narratore si mette sulle tracce di Pound e delle sue frenetiche attività letterarie e politiche in tempo di guerra, quando registrò le infauste trasmissioni da Roma rivolte a inglesi e americani che gli costarono l’imputazione per tradimento e tutti i guai che ne seguirono, ma che lo costrinsero anche a una decisiva resa dei conti e a scrivere quella confessione-apologia-diario di prigionia che sono appunto i Canti pisani. Navarro si diverte a immaginare che Pound fosse una spia doppiogiochista. Cosa senz’altro non vera, ma ben trovata, visto che fra i discepoli che visitarono Pound a Rapallo era quel James Jesus Angleton che diverrà un dirigente particolarmente delirante della CIA…
Insomma, Moody ha della bella materia di cui occuparsi, e lo fa con pacatezza, senza perdere il filo come si dice facesse Pound. In questi giorni infatti esce anche una ristampa di un volumetto poundiano quantomai sintomatico, Jefferson e Mussolini (a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 125, sterline 14,00), scritto nel 1933 in inglese dopo che Pound ebbe il suo unico colloquio col Duce, e dallo stesso Pound assai ben tradotto (magari con qualche revisore amichevole) ed edito nel 1944 a Venezia dalla Casa Editrice delle Edizioni Popolari, ovvia emanazione della R.S.I. Sintomatico libretto per il suo vaneggiare ispirato fra letteratura, storia, economia, vita privata, quello che mi capitò a Excideuil, quanto faceva Gigi a due anni, i misfatti dei «mercanti di cannoni»… Perché talvolta Pound vede giusto. «E la vendita d’armi conduce ad ulteriore vendita d’armi, non c’è saturazione» ripeterà nei Pisani. E i banchieri, il credito sociale del maggiore Douglas… Questo diverrà un’ossessione e condurrà Pound alle sue perniciose dichiarazioni antiebraiche, ma evidentemente nasce da saeva indignatio, qui condita ancora da umorismo e distacco. Il tormentone delle banche e del controllo del credito non è certo meno attuale nel 2015 che nel 1932, quando Pound pensava (con qualche riserva) che Mussolini (e Lenin: li cita quasi sempre insieme) avessero trovato una via d’uscita.
Libro divagante, questo Jefferson e Mussolini è tutto sommato un autoritratto appassionato di Pound alle prese col mondo che vuole e non vuole cambiare. I lettori coscienziosi lo apprezzeranno come un commento ai Cantos XXXI-XLI, scritti nello stesso periodo, e che appunto iniziano con citazioni di Jefferson e finiscono con detti di Mussolini. Si possono trovare nel Meridiano I Cantos, curato dalla figlia Mary de Rachewiltz. La quale nel 2015 ha festeggiato 90 anni, spesi in buona parte ad amministrare l’eredità di un padre straordinario e ingombrante, ma anche a scrivere un suo proprio notevole diario poetico, riunito in tutta una serie di volumetti italiani e inglesi: «Ma la tua casa sarà bella e vuota / se abiterai col sole linda e candida, / l’uomo di ghiaccio ti ha donato il seme…» («Monumenti», in Polittico, Scheiwiller 1996).
Di Mary, nata dalla relazione di Pound con la violinista americana Olga Rudge che poi gli fu vicina negli ultimi anni, e di Dorothy Shakespear Pound, l’algida moglie britannica, e del figlio di lei e altro padre che ebbe nome Omar Pound, e dunque risultò a tutti gli effetti legittimo, Moody si occupa a lungo con la necessaria puntualità, fornendo nuovi importanti documenti. Dai quali si apprende per esempio che Pound, pur nella sua abituale scombinatezza, fece di tutto per riconoscere Mary come unica erede ed esecutrice testamentaria, firmando persino un atto notarile durante la guerra e altri documenti successivi. Che però furono ignorati in seguito alla dichiarazione di infermità mentale del 1945, sicché l’eredità rimase contestata fra la figlia di Ezra e Olga e il figlio di Dorothy e «R».
Si sa che, rimpatriato sotto accusa di tradimento, Pound non fu mai processato in quanto gli psichiatri convocati dal giudice Laws furono d’accordo nel ritenerlo incapace di intendere. Da ciò la lunga reclusione a St. Elizabeths, grande ospedale sulle alture di Washington dove Pound scrisse e brigò finché nel 1958 si decise di sanare la faccenda lasciando cadere l’imputazione e rilasciandolo sotto tutela della moglie. Donde poi nuove avventure, il ritorno in Italia, le passeggiate romane al Colle Oppio, la malattia, il decennio di silenzio fino alla morte.
Secondo Moody fu un grave errore della difesa scegliere la soluzione dell’incapacità mentale, e di Pound accettarla, poiché un processo difficilmente avrebbe portato a una pena detentiva o addirittura capitale come Eliot e altri amici temevano (e i nemici auspicavano). Ma è difficile nel 2015 ricostruire gli stati d’animo del 1945. Era tutta ovviamente una questione politica, e questo Pound lo sapeva: «Mi faranno uscire quando vorranno loro». Del resto Moody parla spesso di paranoia a proposito delle affermazioni farneticanti di Pound all’epoca di St. Elizabeths. Gli psichiatri dunque non mentirono, e il loro parere aveva il vantaggio di andare bene a tutti, compreso l’imputato. Le interviste di Pound con gli psichiatri dell’ospedale riportate da Moody offrono uno spettacolo surreale, dove non si sa chi sia più pazzo, Pound che si presenta a torso nudo e fa come stesse morendo di stanchezza, o lo psichiatra che compìto osserva, giudica e manda.
Moody ha raccolto un’enorme massa di materiale ed è straordinario che abbia saputo conservare tanta flemma e partecipazione critica in mezzo a quella che sembra un’eruzione infinita di contraddizioni.