Possibile che Ezra Pound, l’autore dei monumentali Cantos, sia oggi ancora più attuale come riformatore che come poeta? Questo è quanto promette di mostrare Luca Gallesi, che ha curato una silloge di pezzi a lui dedicati sulla stampa italiana, mai prima raccolti in volume: È inutile che io parli Interviste e incontri italiani 1925-1972 (De Piante editore, pp. 239, €20,00). Scrive Gallesi: «Abituati a considerare Pound un poeta inaccessibile o un pazzo economista, scopriamo in queste pagine un protagonista del Novecento, lucido, determinato, consapevole della realtà e soprattutto intenzionato a migliorarla con il suo infaticabile impegno».

Prima della guerra
Il libro è scandito in due parti, separate dal silenzio degli anni 1940-1946. Nella prima siamo nell’incantevole ed economica Rapallo, dove una colonia di giovani riconosce in Pound, già incoronato «miglior fabbro» da Eliot nel ’22, il nume tutelare dell’arte nuova. Si inizia con Carlo Linati. «Non c’illudiamo più di poter civilizzare l’America», gli dice Pound, «laggiù siamo troppo soffocati dall’afa del regime industriale» e «anche Parigi oramai ci ha tediato». L’Italia, invece, «è viva, ardente, piena d’agitazione e di sano fermento. È quel che ci vuole per noi…». Annidato nella sua «aerea garçonnière in stile picabiesco», il poeta, «ermetico e selvaggio» quanto basta per far «inuzzolire le signore», parla dei propri gusti: ama Cavalcanti, Provenzali, Stilnovo, Vorticismo e «l’atmosfera violenta e raffinata dei poeti latini», mentre Whitman «è da lui compatito».

A Enrico Roma, nel ’31, Pound sembra «uno stranissimo uomo»: «parla volentieri di tutto: di opere, di paesi, di individui. Principalmente per demolirli»; così «non c’è da meravigliarsi che Shakespeare gli sembri un “grosso pasticcio”. Di queste sentenze sbrigative me ne ha regalate parecchie». Altre ne rilascia a Costantino Granella, cui Pound, «impellicciato estate e inverno», pare «una stampa oleografica di un gentiluomo di antico stampo», nonostante «i piedi sulla scrivania». Per far nascere una nuova letteratura, gli confida, sarebbe quasi disposto alla «distruzione del passato», però combatterebbe per salvare Omero, Saffo, Catullo, Properzio, Dante, Chaucer e Villon – ma non Eschilo, Sofocle, Euripide, Virgilio, Petrarca, Shakespeare e Racine. Se poi «si obietta qualcosa a proposito del grande drammaturgo inglese, risponde: “Non credo che alcuno abbia mai acquistato una esperienza nuova leggendo i poeti elisabettiani”». Infine gli parla di una sua opera di cento canti: «vorrebbe che questo vasto poema potesse abbracciare tutti i motivi della storia universale», e «non è senza un malcelato orgoglio che egli assicura che dopo la Divina Commedia non vi è più stato alcun libro che abbia compreso tutta la vita di tutta l’umanità».

La prima parte, tutta letteraria, si chiude nel ’38 con un pezzo dell’ammiraglio Ubaldo degli Uberti, dove si affaccia il clima della seconda. Tre anni prima egli aveva ricevuto una copia di Jefferson and/or Mussolini dove Pound, dietro al frontespizio, aveva scritto: «Quaranta editori lo hanno rifiutato». Questo perché, spiega Uberti, egli è «amico e ammiratore dell’Italia e di Mussolini». Un recensore inglese, «reciso come sono di solito i beati ignoranti», ha vilipeso «il culto dell’Autore per Mussolini», definendolo «grottesco prodotto del complesso di inferiorità di una nazione». In quei paesi ci si gloria della libertà di stampa, ma una grande rivista americana ha cessato di pubblicare Pound «perché era più redditizia la collaborazione con Hemingway, quel macabro calunniatore dell’Italia».

Segue la tragedia. Pound, scrive Gallesi, «continua a lavorare come gli dettava la sua coscienza, tentando di far aprire gli occhi all’opinione pubblica sulle vere cause della guerra, scoppiata per l’avidità degli speculatori e la spregiudicatezza dei mercanti di cannoni». Nel ’41 inizia le 120 trasmissioni radiofoniche che gli fruttano, nel ’43, l’incriminazione per tradimento. Nel ’45, arrestato da «banditi partigiani», chiede di essere consegnato agli americani. Dopo la reclusione nella famigerata gabbia di Pisa viene trasferito negli Stati Uniti. Dichiarato insano di mente passa dodici anni in un ospedale psichiatrico. Nel ’58 una petizione promossa da Archibald MacLeish, Robert Frost, Ernest Hemingway, T. S. Eliot e altri ne chiede il rilascio. La richiesta è accolta e Pound torna in Italia.

Papini e Montale
Tre anni prima la grazia era stata chiesta da Giovanni Papini. Sul Corriere della Sera si rivolge all’ambasciatrice Clara Luce, che «è, per grazia di Dio, una cristiana, un’artista e una scrittrice», e può convincere Washington. Da dieci anni un grande poeta è rinchiuso in un manicomio criminale, «benché non sia un pazzo nel senso ordinario della parola, né tanto meno un delinquente». «Non intendo attenuare né assolvere le colpe di Ezra Pound verso il suo Paese» scrive «ma penso e proclamo che queste colpe, in qualunque maniera si vogliano misurare e pesare, hanno avuto, col martirio crudele di dieci anni, la loro piena espiazione».

Venti giorni dopo, sul Corriere d’Informazione, Montale condivide il «generoso appello», e riassume il caso. Pound è accusato di aver svolto alla radio italiana un’attività per la quale negli Stati Uniti «era prevista la pena capitale». Un giudizio non c’è stato perché degli psichiatri lo hanno dichiarato «improcessabile». Si può graziare un condannato, ma Pound non lo è mai stato, e dichiararlo guarito potrebbe riaprire il processo. La questione, dunque, «non può certo esser risolta dagli intellettuali italiani», non fosse altro perché «noi non abbiamo ascoltato alla radio i discorsi poundiani incriminati».

Notevole osservazione. Nel 1978 i Pound Literary Trustees hanno permesso la pubblicazione di un libro (Ezra Pound Speaking) che contiene tutto quanto costò l’incriminazione del poeta: i manoscritti che preparava per le trasmissioni, e le loro trascrizioni da parte dell’Intelligence Service (che contenevano errori – Céline, per esempio, viene trascritto come «Stalin»). La migliore ragione per pubblicare i discorsi, dichiara il curatore, è la più semplice: «Migliaia di persone ne hanno parlato o scritto, ma solo una manciata li ha mai ascoltati o letti». A partire dal 1978, invece, chiunque li può leggere.

Poiché È inutile che io parli contiene pezzi che vanno dal 1925 al 1972, nessuno dei loro autori poteva conoscere i discorsi di Pound. Eccone qualche passo. «Sono gli Ebrei che vi han fatto combattere»: la guerra non ci sarebbe stata «se solo aveste avuto il buon senso di ELIMINARE Roosevelt e i suoi Ebrei o gli Ebrei e il LORO Mr. Roosevelt». I vecchi pogrom non vanno perché eliminano solo «i piccoli»; ma «se qualcuno avesse un colpo di genio e potesse iniziare il pogrom DALLA CIMA, se ne potrebbe parlare». «Il punto UNO del programma NAZI» è che «l’allevamento degli esseri umani merita PIÙ cura e attenzione di quello di cavalli, pecore e capre». Per «conservare il MEGLIO della razza» bisogna «allevare purosangue. Ciò significa EUGENETICA: l’opposto del suicidio della razza». «Céline era determinato a salvare la Francia … Quaranta milioni di popolazione nel 1938; 25 milioni di Francesi che presto saranno una minoranza. CÉLINE glielo diceva, ma NON l’hanno ascoltato».

«È tempo di leggere Céline per le semplici verità che si trovano nei suoi scritti, espresse con perfetta lucidità … Bonjour, Ferdinand». Se «il vecchio Ez» è per Gallesi «lucido, determinato, consapevole della realtà e intenzionato a migliorarla con il suo infaticabile impegno», tale era per Ezra Céline. Ma sarà davvero per questo impegno che «a quasi mezzo secolo dalla morte, Pound» secondo Gallesi «è sempre più vivo»?