Poulenc, poesia della paura
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Poulenc, poesia della paura

Improvvisi La dedica che Francis Poulenc volle premettere alla partitura dei «Dialogues del Carmélites» dice più di qualunque commento...

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 20 novembre 2022

La dedica che Francis Poulenc volle premettere alla partitura dei Dialogues del Carmélites dice più di qualunque commento:  «Alla memoria di mia madre che mi ha rivelato la musica, di Debussy che mi ha dato il gusto di scriverla, di Monteverdi, Verdi e Musorgskij che mi sono stati, qui, di modello».

I Dialoghi delle carmelitane andarono in scena per la prima volta al Teatro alla Scala, in italiano, tradotti da Flavio Testi, il 26 gennaio 1957. L’edizione francese, Dialogues des Carmélites,  debuttò all’Opéra di Parigi il 26 giugno dello stesso anno. Il 27 novembre prossimo l’opera inaugurerà la stagione 2022-2023 del Costanzi di Roma. Sarebbe fuorviante supporre che il suo immediato successo sia dipeso da una scrittura musicale non avanguardistica, «tradizionale». È, invece, un successo che si affianca a quello di opere come Wozzeck, Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, Ka’ta Kabánová, La carriera di un libertino, Peter Grimes, e molte altre del Novecento. Magari non in Italia, ma in repertorio nel resto del mondo.

Nessuna delle opere citate, nemmeno Wozzeck, può dirsi un’opera d’avanguardia, ma nessuna di queste  può intendersi come un’opera «tradizionale», del genere Tosca o Adriana Lecouvreur, per intendersi. Il senso del successo andrà dunque cercato altrove. Passate, infatti, le contrapposizioni, più ideologiche che reali, tra avanguardia e tradizione, il senso di che cosa sia stata la musica, tutta la musica, del Novecento, andrà cercato altrove. Francis Poulenc è associato al gruppo di musicisti che fu chiamato dei Sei, considerati oppositori del moderno, fautori di recupero delle forme classiche. Ma un loro contrasto o una loro contrapposizione a Debussy è smentita dalla dedica dei Dialogues. Se c’è una diversità dal moderno, o meglio dal modernismo, potrebbe essere apparente, un’illusione stilistica. Perché il moderno ha mille facce.

Poulenc appartiene al mondo artistico della Parigi del primo Novecento e oltre. C’erano i Ballets Russes di Djagilev, e dunque Stravinskij. Ma anche Valéry, Apollinaire, Eluard, Picasso. Apollinaire può scrivere gli enigmatici Calligrammes, ma anche una poesia che arieggia la canzone parigina: Sous le Pont Mirabeau. E Poulenc, su una poesia di Anouilh, una chanson come Les chemins de l’amour per la commedia Leocadia. C’era, inoltre, un cattolicesimo inquieto. problematico, interrogante, inclusivo, e non dogmatico, clericale ed esclusivo, come per lo più quello italiano.

Nel cinema lo incarnò assai bene Robert Bresson, che trasse anche lui il soggetto da Bernanos, ed è un capolavoro: Diario di un curato di campagna (1950). Il libretto o, più esattamente, il testo dell’opera è la riscrittura che Bernanos trasse da un romanzo di Gertrud von Le Fort, che s’ispira a una vicenda reale accaduta durante la Rivoluzione Francese: 16 carmelitane vennero condannate nel 1794 alla ghigliottina. Nel 1959 Philippe Agostini ne fece un film con Alida Valli, Jeanne Moreau, Pierre Brasseur e Jean-Louis Barrault.

La vicenda è presto narrata: Blanche, una nobile ragazza, per fuggire la propria paura della vita si rifugia nel Carmelo, e prende il nome di Blanche dell’Agonia di Cristo. E là scopre che anche le altre suore vivono drammi interiori laceranti. «Si entra nel Getsemani per non uscirne», la avverte la superiora.  Ma è poi proprio lei a urlare la propria paura della morte. E aveva detto: «Non si ha paura. S’immagina di avere paura. La paura è una fantasmagoria del demonio».

Tutta l’opera sembra una declinazione del sentimento della paura: prima di tutto, della paura di vivere.  «Ciò che noi chiamiamo caso, è può darsi la logica di Dio». Ma Dio è lontano, silenzioso. La fede è un’aspirazione che si vive in solitudine, senza riscontri. Assomiglia alla solitudine della morte: nessuno può aiutarci, nemmeno Dio, che non si fa sentire. La musica di Poulenc segue l’andamento delle parole con delicatezza e proprietà inimitabili. La melodia nasce dalla dizione stessa delle parole e suscita un profondo senso d’interiorità, raggiungendo vette sublimi di poesia.

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