L’Assemblea nazionale cinese ha ratificato l’abolizione del limite di due mandati per il presidente della Repubblica popolare cinese; in questo modo Xi Jinping potrà estendere il suo «regno» ben oltre i dieci anni canonici. Il limite venne stabilito da Deng Xiaoping negli anni ’80 proprio contro i rischi di un potere illimitato, per garantire una leadership collettiva al partito e per gestire in modo «morbido» la successione al vertice.

La recente decisione dell’Assemblea – quanto di più simile a un parlamento, anche se in realtà ha un mero compito di ratificare quanto già deciso dal partito comunista – ha preso atto di quanto si poteva osservare in Cina da tempo: Xi Jinping, infatti, al recente congresso del Pcc di ottobre, non aveva fornito alcuna indicazione sulla sua successione, lasciando intendere la volontà di andare oltre il suo mandato.

Questa novità nella recente storia cinese è stata spiegata dai media statali con la necessità di garantire stabilità a un paese in una fase delicata. La Cina infatti sta gestendo una crescita controllata e una complicata trasformazione da un’economia trainata dalle esportazioni a una con un fiorente mercato interno basato su innovazione e progresso tecnologico, contemporaneamente alla necessità di proseguire sulla linea di espansionismo commerciale internazionale tracciato dalla Nuova via della seta.

Allo stesso modo il paese deve fare i conti con una realtà internazionale cangiante, con accelerazioni improvvise, come dimostrano le recenti decisioni di Donald Trump sui dazi e sulla possibilità di un incontro con Kim Jong-un (doppio potenziale colpo a Pechino).

Si tratta di due eventi recenti che devono aver rafforzato l’idea di chi sostiene che Xi Jinping debba continuare a controllare il paese, ora che il partito comunista ha ottenuto una nuova popolarità e la Cina è tornata ad avere una postura internazionale rilevante. Le insidie, per entrambi i risultati ottenuti ad oggi da Xi, sono tante e si è dunque scelto per la continuità.

Prima di analizzare alcune storture in questa decisione, è necessario liberarci subito da un equivoco sul quale in realtà sembrano aver giocato alcuni media: Xi Jinping non è «il nuovo Mao», per la semplice ragione che quella Cina non c’è più, non esiste più da tempo e sarebbe il caso che tutti lo ricordassero; riportare Pechino sempre indietro nella storia, anche solo attraverso facili richiami, significa continuare a considerare la Cina al di fuori di un consesso internazionale nel quale, basti pensare agli Usa di Trump, in questo momento sembra essere l’unica potenza responsabile.

Allo stesso modo, però, non reggono le spiegazioni di chi – ritenendo la volontà di avere uomini forti e Stati in rischiosa involuzione autoritaria come una sorta di costante in questo periodo storico (pensiamo ad altri paesi asiatici o alla Russia, alla Polonia e all’Ungheria) – finisce per supportare una sorta di esenzione per la Cina dai pericoli di questa traiettoria.

I rischi, infatti, di avere un uomo solo al comando e per di più a tempo indeterminato fanno parte tanto della storia dell’umanità, quanto della sua fase capitalistica più vicina a noi: in questo caso non ci sono «caratteristiche cinesi» che tengano.

Il limite al doppio mandato non garantisce che – in futuro – chi potrà utilizzare quel potere, sarà esentato da pericolosi tentazioni, finendo poi per rivolgerlo contro qualcosa o qualcuno, un nemico interno o uno esterno. Inoltre Xi Jinping, in questo momento, non è solo un uomo forte al comando; è un politico che tra le armi a propria disposizione per assicurarsi e perpetuare il suo status, avrà anche una Commissione nazionale di supervisione, anch’essa ratificata dall’Assemblea nazionale: un organo al di sopra perfino della Corte suprema e dedicato a ribadire la durissima lotta alla corruzione iniziata da Xi nei primi giorni del suo mandato.

Solo che questa Commissione – di cui si aspetta la ratifica della legge che ne determinerà i compiti – rischia di diventare un tribunale personale di Xi, capace di sottoporre al proprio arbitrio non solo funzionari corrotti ma anche chi dovesse «deragliare» dalla linea politica del presidente, segretario del partito e capo delle forze armate per chissà quanto tempo.