Se c’è ancora qualcosa che possa dirsi assoluto nel tempo che segue la caduta di ogni preminenza metafisica, questo non può che essere lo stile. Flaubert l’aveva già teorizzato in letteratura, ma è nel cinema – se possibile – che ciò si fa ancora più evidente. Qui, infatti, ne va dello sguardo sulle cose, del mondo che guarda il mondo, senza un fuori-del-mondo da dove osservare con distacco quanto accade. Con il cinema ciò che è visto ci guarda, e il cineasta è colui che, coinvolto, a sua volta coinvolge con la sua opera gli spettatori nel germogliare del visibile. O almeno questa è la modalità assoluta di uno stile di regia di contro a quella relativa che si serve del visibile per sottoporlo alla storia che di volta in volta si intende raccontare. Regista assoluto nel senso indicato è, secondo Jacques Rancière, Béla Tarr, cui il filosofo francese dedica un breve quanto intenso saggio (Béla Tarr. Il tempo del dopo, tradotto da Ilaria Floreano per Bietti, con un apparato di immagini e un’appendice di Alessandro Baratti contenente le schede dei film). E del dopo è certo questione in Tarr: dopo il comunismo, dopo le storie, dopo il realismo socialista… Un cinema che fa della durata il suo campo d’azione e passione, perché questo è «il tempo in cui ci si interessa all’attesa stessa». Non si tratta, allora, né di una ripresa dopo la caduta, né della catastrofe ormai avvenuta. Piuttosto, è il vuoto dell’attendere senza remissione, aperto sulla propria ineluttabilità. Questa è una declinazione della fine sulla quale varrebbe la pena riflettere. Fin dai primi film girati nell’Ungheria socialista, il cinema di Tarr oppone al tempo pianificato il tempo vissuto, e quest’ultimo è fatto di sensazioni, percezioni, sentimenti, attese, desideri e delusioni che si scoprono come la materia di quell’«arte del sensibile» che è il cinema. Ecco allora i corpi muoversi in uno spazio, e le immagini e i suoni di queste relazioni. Ciò costituisce un tessuto temporale che oppone – è uno dei motivi guida di Rancière – le «situazioni che durano» al concatenamento di schemi temporali prefissati e dei nessi di causa ed effetto tipici delle storie. E tuttavia quando – a partire dal 1989 – Tarr girerà tutti i suoi film in bianco e nero, dopo aver sezionato lo spazio e i colori per meglio far risaltare il caos dei rapporti umani, non rinuncerà alle storie. Il suo rapporto con lo scrittore László Krasznahorkai, dai cui romanzi sono tratti molti film, è indicativo in tal senso. Piuttosto, la storia che viene raccontata è sempre la stessa, quella «di una promessa delusa, di un viaggio che si conclude al punto di partenza». Ciò che resta è il peso cosmico, ontologico, della legge della ripetizione senza differenza. La pioggia, la nebbia e la melma della larga pianura ungherese, o viste e sentite attraverso i vetri delle finestre dei bistrot, con il loro carattere insistente, rattrappente, spossante mostrano la forma ciclica ed entropica della vita che costringe e opprime, e che il film riprende; l’inerzia terribile delle cose che si «attaccano» agli individui – come dice uno dei protagonisti di Perdizione –, occupando interamente lo spazio, circondandoli e spingendoli ai margini. Oltre a ciò non vi è nulla da raccontare (su questo, forse – su un senso ultimo dato, che pesa come una cappa sullo spettatore –, ci si aspetterebbe un intervento di Rancière che invece non c’è). E qui fioriscono i gesti, i brusii, le parole sussurrate, i volti, le piccole e grandi vicende che legano tra loro gli individui, i tradimenti, gli amori, tutto un reale sensibile che dura per un momento più o meno lungo in un generale e irreparabile perdersi. A questa circolarità opprimente, si oppongono i movimenti degli individui che sono pur sempre pieni di «onore e fierezza». La dignità degli esseri si afferma nel marciare in linea retta per realizzare qualcosa, un’idea, un desiderio, una promessa, la voglia di uscire dal già visto e andare verso l’ignoto. Poco importa l’inganno di cui inevitabilmente cadranno vittime – la truffa di Irimiás in Satantango che spinge i paesani a consegnare tutti i loro denari e a partire verso la realizzazione di un progetto comunitario che non avrà mai luogo. Ciò che conta è la «pura possibilità di cambiamento» che sembra mettersi in moto ad opera spesso – più o meno direttamente – di «imbroglioni, idioti e folli». La scelta del piano sequenza è dunque indicativa della perdita di un centro percettivo e della conseguente necessità di costruire un «continuum di modifiche infime confrontate al movimento ripetitivo normale». Esso diventa l’«unità di base» del fare cinema, in quanto rispetta «la natura della durata esperita al cui interno le attese si fondono o si disgiungono e radunano e oppongono gli individui». Da qui la maestria dei movimenti di macchina di Tarr, le circolarità virtuali e le zone d’ombra, il bianco e nero sempre preciso e misurato, l’indifferenza nei confronti delle paludi di tempo morto o perso che permette di non assolutizzare l’immagine, ma di darle lasco, di rimetterla a sé in una modalità che, a volte, giunge ad aprirsi in modo inaspettato e sorprendente, come la camicia stesa ad asciugare che diventa una tela di pieghe e giunge a occupare lo schermo intero ne Il cavallo di Torino. È di questo che parliamo quando parliamo del cinema di Tarr.