Che Lear sia un re non ci sono dubbi. Scomponibile, come il cubo di Rubik, King Lear campeggia sullo sfondo. Segnaletica postmoderna lungo la strada della follia. Tortuosa, frammentata, come quei caratteri, banderuole non sense, che gireranno a vuoto L’ordine salta. Non regna più nel cuore di Lear. Sarà terra desolata, morte, crudeltà, violenza, tradimento. Una tavolozza che è la nostra vita: «Non è, dunque, l’uomo altro che questo?». Abbandonate le maschere dell’ipocrisia, le regole della convenienza sociale, i legami della convivenza familiare, tutti faranno i conti con la debolezza della carne e l’ambizione degli istinti. Detronizzato dalla miopia filiale, più che dall’età, il vecchio Lear cala sul palcoscenico. E dopo la sfuriata iniziale si immerge, docile e dilaniato, nella solitudine del delirio. Venato di echi dostoiewskiani e profili beckettiani. Questo è Glauco Mauri, che porta in estasi il «suo» Lear, il terzo dopo il 1984 e il 1999, diretto ora da Andrea Baracco. Il debutto alla Pergola (ancora domani), dal 2 febbraio all’Eliseo di Roma. Producono Mauri/Sturno e Teatro della Toscana.