Caldo e afa, in una notte romana d’agosto. Francesco Massari si desta a causa dell’urlo e del trambusto che ha sentito provenire da un’altra stanza della casa in cui lavora come servitore, e accorre. Scorge il suo signore, che aveva il compito di sorvegliare da presso, in terra, dolorante, ferito. Ha una spada conficcata in un fianco. È la notte tra l’1 e il 2 agosto 1667, la notte in cui Francesco Borromini, da giorni «in preda al malumore ipocondriaco», come ricorderà una cronaca, decide di autoinfliggersi una ferita che lo porterà alla morte. Morte che, però, non lo coglie immediatamente. Ha il tempo di raccontare lucidamente come ha agito al medico, giunto nella casa di Vicolo dell’Agnello per provare a salvarlo. Stende testamento, si fa benedire e, infine, la mattina del 2 agosto rende l’anima a Dio.
Francesco Castelli (questo il suo vero nome) era nato nel 1599 a Bissone, sul lago di Lugano, da una famiglia di scalpellini imparentata con Carlo Maderno. Dopo una prima formazione a Milano, probabilmente già nel 1617 (o al più tardi nel 1619) è a Roma, dove affianca lo zio Leone Garvo come scalpellino a San Pietro. Grazie a Maderno, che richiede il suo aiuto per i disegni, che esegue in modo preciso e mirabile, il giovane Francesco si fa strada nella Roma di inizio Seicento, dove l’astro di Bernini è già alto.
Proprio col «Cavalier Bernino» Borromini si troverà a collaborare per l’impresa, lunga e mastodontica, del Baldacchino della basilica petrina. I due dovettero entrare in contrasto riguardo alla soluzione da adottare per il coronamento dell’immane scultura. Complici le smodate ambizioni di entrambi, e il carattere poco incline alla mediazione di Borromini, si sarebbero guardati sempre di sottecchi, da rivali.
Borromini uomo bizzarro, incline alle scenate e ai gesti clamorosi, ma anche architetto geniale, meticoloso, che si dedica solo a progetti che «avessero assai del grande, come Templi, Palazzi e simili» (Filippo Baldinucci). Una vita complicata, la sua, fatta di successi, certo, ma anche di sconfitte e di allontanamenti dai cantieri che aveva seguito, spesso risollevandone le sorti. L’immagine dell’artista come genio incompreso, tanto cara ai romantici della seconda metà dell’Ottocento, ha forse, nel caso di Borromini, qualche pezza d’appoggio in più per non essere considerata del tutto fasulla. In fondo, sono molte le fonti che ce lo tramandano come uomo melancolico, incline all’isolamento.
O, al contrario, pronto a compiere gesti smodati e quasi teatrali, come quando, nel 1648, si allontanò dal cantiere di San Giovanni in Laterano, che proprio lui stava restaurando in quanto unico in grado di far fronte ai complessi problemi che il restauro avrebbe posto. Pur di non fermare i lavori Virgilio Spada, l’oratoriano amico e sodale dell’architetto, chiese a Pietro da Cortona, uno dei pochissimi artisti ad avere buoni rapporti con Borromini, di vestire i panni del mediatore per recuperare i disegni: Spada sapeva che piuttosto che consegnarli, Borromini li avrebbe dati alle fiamme. La trattativa fu estenuante, tanto che Cortona decise di «non volersi più intrigare». A quest’atto eclatante ne seguì un altro. Innocenzo X Pamphilj, visto il gesto di Borromini, incaricò Gian Lorenzo Bernini di eseguire la Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona. Francesco andò su tutte le furie, presentandosi davanti al Papa, e «non si trovava modo di farlo partire dal cospetto di Sua Santità, quale dubitò, che s’andasse a gettare in Tevere, tanto stimò che fosse fuori di sé».
In questo più che in altri casi è difficile non legare la vita e l’opera dell’artista, non provare cioè a scorgere un riflesso del suo carattere tormentato nelle creazioni, piene di perizia tecnica e fantasia inventiva, che Borromini ci ha lasciato. A lui sono stati dedicati molti studi, ma di certo un libro su tutti si è imposto come il punto di riferimento: Borromini, architettura come linguaggio, che Paolo Portoghesi pubblicò presso Electa nel 1967, anno del terzo centenario della morte dell’artista – in occasione del quale studi ed esposizioni contribuirono di molto ad arricchire le conoscenze su di lui. Il libro di Portoghesi, però, segnò un momento particolare anche per la casa editrice: fu, credo, il primo libro di Electa a riportare in controfrontespizio i nomi di chi ne aveva curato l’impaginato, la redazione, la stampa. Segnava uno scarto, un salto rispetto ai libri che Electa aveva pubblicato sino a quel momento – quelli con le fotografie incollate, per intendersi –, che appartenevano a un mondo, quello della prima metà del Novecento, ormai scomparso. A sfogliare i libri d’arte e con essi la storia di Electa dal 1944 in qua, il Borromini di Portoghesi individua un punto di svolta nella fattura materiale e tipografica, oltre il quale le cose sarebbero cambiate completamente.
Il libro di Portoghesi è entrato, giustamente, nel canone dei testi di riferimento borrominiani, ed è stato ripubblicato periodicamente sino al 1990. Architetto lui stesso, Portoghesi era riuscito a restituire un’immagine coerente e a tutto tondo del lavoro di Borromini, spesso affidato ai soli, seppur numerosi, disegni, che eseguiva senza sosta e che in larga parte erano riprodotti nel volume. Un altro punto di forza di quel libro era infatti lo straordinario apparato illustrativo, ricchissimo, una vera festa per gli occhi. Da quel 1967 molti altri studiosi hanno dedicato i loro sforzi e le loro energie all’architetto ticinese. Basterà citare, pars pro toto, il volume di Joseph Connors, Borromini e l’Oratorio Romano, pubblicato in Italia nel 1989 (Einaudi, «Biblioteca di storia dell’arte»).
Anche per rendere conto della mole di studi accumulatisi dal 1967, Paolo Portoghesi ha deciso di riscrivere il suo libro. Pubblicato ora da Skira, con titolo differente rispetto alla prima edizione: Borromini La vita e le opere (pp. 632, 309 ill. col., 500 ill. b/n, euro 90,00). Non è semplicemente la ripubblicazione del libro del ’67. Scrisse una volta un grande storico dell’arte che «i libri non si rammodernano se non riscrivendoli da capo». Ed è il principio che in larga parte ha seguito Portoghesi in questa nuova impresa. Il testo è stato in larghissima parte riscritto e ampliato, così come sono state eseguite ex-novo alcune delle (numerosissime) fotografie che accompagnano il volume.
A chi abbia avuto tra le mani il precedente Borromini, questo nuovo non sembrerà così diverso a una prima occhiata: è stata mantenuta la partizione delle immagini in fondo ai capitoli, così come su carta di diverso colore – come era già nel 1967 – sono stati stampati, tutti a colori, i disegni. Ma non ci si lasci ingannare. Bisogna addentrarsi nelle pagine e seguire lo svolgersi, attraverso la narrazione di Portoghesi, dei lavori di Borromini nei diversi cantieri, il susseguirsi degli incarichi, lo sconforto nell’‘anno nero’ 1657, per cogliere quanto sia stato arricchito il testo. In molti punti è stato aggiornato, in altri modificato e accresciuto sulla base di una lettura critica di quel che nel frattempo è occorso negli studî.
Lo sguardo di Portoghesi è arricchito della sua stessa pratica dell’architettura, del suo modo di intendere il linguaggio di Borromini, per lui una specie di canone, attraverso l’evolversi del suo stesso linguaggio nella progettazione delle forme dell’oggi. E sicuramente è anche questo uno dei motivi per cui il Borromini che emerge dalle pagine del libro era, ed è, così convincente. Un ‘cantiere’ di ricerca, quello di Portoghesi su Borromini, che trova in questo libro una nuova, felicissima sintesi.