“In Portogallo la violenza domestica è il crimine che fa più vittime e uno dei principali problemi del paese”: queste le parole pronunciate nel primo giorno della nuova legislatura dal leader parlamentare del Bloco de Esquerda, Pedro Filipe Soares, che ha presentato due proposte di legge per intervenire su quello che ha definito “un autentico flagello”.

Dal 2004 l’Osservatorio sulle donne assassinate, nato nell’ambito dell’UMAR, União de Mulheres Alternativa e Resposta, storica associazione femminista portoghese, analizza i casi di violenza sulle donne riportati dalla stampa e registra età delle vittime, luogo e tipologia delle violenze.

Da quando ha iniziato la sua analisi l’Osservatorio ha registrato 531 femminicidi e 618 tentativi di femminicidio (i dati più recenti sono aggiornati al 12 novembre 2019 e presentati a fine novembre in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne).

Ogni mese cinque donne in Portogallo sono vittime della violenza maschile più estrema, e ogni mese due di loro muoiono a causa di questa violenza.

Il bilancio provvisorio del 2019, secondo l’Osservatorio, era di 28 donne uccise nell’ambito di relazioni sentimentali o familiari, due assassinate da sconosciuti, 27 tentati femminicidi e 45 orfani. Da allora altre due donne sono state uccise dai propri compagni negli ultimi giorni dell’anno.

Un numero altissimo, per un paese che ha poco più di dieci milioni di abitanti. Delle 28 vittime registrate fino a novembre 2019, il 53% sono state uccise dall’uomo con cui avevano una relazione in corso al momento dell’assassinio e il 21% dall’ex marito o compagno (mentre nel resto dei casi da familiari diretti o indiretti). Il 71% delle donne uccise aveva già subito violenza durante la relazione, e nella maggior parte dei casi denunciato.

Secondo i dati pubblicati dal governo, invece, le vittime di violenza domestica fino a novembre sarebbero 33: 25 donne, un bambino e 7 uomini.

Il panorama che ne emerge non solo conferma che il femminicidio è l’epilogo di violenze perpetrate per anni da compagni e mariti ma ci dice anche che in molti casi altre persone, o addirittura istituzioni, erano a conoscenza delle violenze.

Oltre ai casi di violenze in ambito familiare, nel 2019 due donne sono state uccise da sconosciuti. A gennaio una prostituta è stata accoltellata a morte da un cliente durante un incontro mentre il figlio della donna, un ventenne affetto da sindrome di down, aspettava la madre in macchina, e a settembre una suora di 61 anni è stata uccisa e violentata da un quarantenne.

Secondo Joana Grilo, attivista della rete 8 março, “il Portogallo ha delle leggi molto più avanzate della sua società e la violenza di genere ne è un esempio. C’è una grande disparità tra le grandi città e i piccoli paesi dal punto di vista della cultura di genere e in questo contesto si inserisce il grande lavoro portato avanti dai movimenti femministi”.

Nel 2019 per lo sciopero femminista internazionale dell’8 marzo sono scese in piazza 30mila persone, “ma la grande vittoria – prosegue Grilo – non è stata tanto vederne 20mila a Lisbona, quanto portarne cinquecento a Braga, coinvolgere piccole realtà, dare forza alle donne che non hanno mai raccontato le loro storie”.

Il femminismo portoghese ha una storia antica e intensa, che nel periodo repubblicano che ha preceduto la dittatura di Salazar ha visto lotte e rivendicazioni di pensatrici femministe.

“Quelle rivendicazioni furono rese invisibili durante la lunga notte del fascismo, e noi che crescemmo durante la dittatura non avevamo coscienza di quelle lotte – spiega Manuela Tavares, una delle fondatrici dell’Umar – All’indomani della rivoluzione dei garofani del 1974 il femminismo portoghese è dovuto rinascere, ma aveva completamente perso la memoria storica e questa fragilità ha tutt’ora conseguenze evidenti”.

La legge che depenalizza l’aborto, ad esempio, è arrivata solo nel 2007 dopo anni di lotte femministe. “Concentrando l’attenzione su quel tema abbiamo dovuto lasciarne indietro altri e siamo arrivate a far entrare i discorsi di violenza domestica e di genere nel dibattito pubblico con vent’anni di ritardo rispetto ad altri paesi europei” prosegue Tavares – Mentre i primi centri antiviolenza in Inghilterra sono degli anni ‘70 noi ci siamo arrivate solo negli anni ‘90”.

Se però molti passi avanti sono stati fatti da allora la violenza domestica resta un problema culturale che affligge non solo la società ma anche i tribunali.

“Mia figlia Carla ha vissuto per sei anni con un compagno violento che la maltrattava. – racconta Amélia Santos, che ha perso entrambi i figli per mano dello stesso uomo – Quando nel 2010 ha deciso di separarsi, lui ha minacciato di uccidere tutta la sua famiglia. Quello stesso anno l’ha sequestrata, torturata e violentata davanti al figlio di 22 mesi. Le ha fatto tutta la violenza possibile”.

Il giorno dopo il sequestro l’uomo, Moisés Fonseca, fu arrestato, processato e condannato a un anno e mezzo con sospensione della pena.

“La giudice disse a mia figlia che lui aveva agito per amore” prosegue Amélia Santos, e in seguito, “come la maggior parte delle donne di questo paese, è stata obbligata all’affidamento congiunto del figlio con l’uomo che l’aveva sequestrata e violentata”. Tre anni dopo l’uomo sequestrò il fratello di Carla, lo uccise e ne nascose il corpo, prima di uccidere anche lei.

“La mentalità esistente nei tribunali è quella della colpevolizzazione delle donne – spiega Manuela Tavares – Sono stati istituiti dei corsi di formazione sul tema ma sono rivolti ai giovani mentre sono proprio i giudici più anziani quelli che hanno più potere”.

Quello del giudice Neto de Moura ne è l’esempio più evidente: in una sentenza del 2015 il magistrato giustificò la violenza a una donna da parte del compagno e dell’ex marito sostenendo che “l’adulterio è una condotta che la società ha sempre condannato, e le donne oneste sono le prime a stigmatizzare le adultere”. Nella sentenza citò la Bibbia e una legge penale del 1886 che di fatto prevedeva il delitto d’onore.

In seguito, in un processo d’appello a un uomo che aveva rotto il timpano alla compagna con un pugno, attenuò la pena decisa in primo grado e ritirò il braccialetto elettronico. Dopo le denunce e le proteste delle femministe e dell’opinione pubblica il giudice aveva chiesto di essere dispensato dai processi di violenza domestica ma la decisione era stata rigettata dal Tribunale Supremo. A marzo di quest’anno è stato rimosso dal suo ruolo e assegnato a un tribunale civile.

Oggi, grazie al lavoro dell’Umar e dei movimenti femministi, il tema sulla violenza ha trovato uno spazio nel dibattito pubblico e nel parlamento portoghese.

Il governo socialista di António Costa, confermato nella tornata elettorale dello scorso 6 ottobre, aveva proclamato per il 7 marzo una giornata di lutto nazionale per le donne vittime di femminicidio e istituito una commissione tecnica multidisciplinare per migliorare la prevenzione e combattere la violenza domestica.

La relazione presentata a fine giugno dalla commissione chiedeva al governo di intervenire su tre ambiti principali: una raccolta dei dati dettagliata, modalità e protocolli d’intervento nelle 72 ore successive alla denuncia per garantire la protezione adeguata, e infine una formazione specifica delle figure professionali a vario titolo coinvolte.

Il governo attuale ha inserito la violenza domestica tra i temi da affrontare nella legislatura appena avviata, inserendo tra le misure da adottare lo sviluppo di un sistema integrato di segnalazione di potenziali vittime e aggressori, investimenti nell’educazione e l’allargamento della Rete nazionale di appoggio alle vittime di violenza domestica. Inoltre da tempo il primo ministro Costa valuta una riforma costituzionale per la creazione di tribunali specializzati in violenza domestica, per permettere un approccio giudiziario integrato.

Il Partito Ecologista dei Verdi (PEV) in occasione della giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne ha proposto un sussidio statale alle vittime di violenza e a ottobre il Bloco de Esquerda ha riproposto i due progetti di legge a cui lavora dalla scorsa legislatura, ma che non erano stati approvati dal parlamento.

Il primo prevede che le testimonianze delle vittime di violenza domestica nelle 72 ore successive alla denuncia possano essere usate come prova durante il processo, sia perché raccolte in un momento immediatamente successivo ai fatti e quindi più precise e ricche di dettagli, sia per evitare alle donne di ripetere l’audizione.

Il secondo progetto di legge prevede invece il conferimento dello status di vittima ai minori che assistono o testimoniano nei casi di violenza domestica, come previsto dall’articolo 26 della Convenzione di Istanbul.

All’indomani della giornata contro la violenza sulle donne il gruppo delle Mulheres de Braga, costituitosi dopo il femminicidio di Gabriela Monteiro a settembre, ha consegnato al presidente dell’Assemblea della Repubblica una petizione firmata da ottomila persone per chiedere al Parlamento di intervenire con misure efficaci sulla violenza, e in particolare nella tutela dei figli delle vittime.

Per questo si batte anche Amélia Santos, che ha dovuto lottare per ottenere la custodia del nipote contro la famiglia dell’assassino dei suoi figli. “I bambini che vivono in contesti di violenza di genere subiscono enormi traumi – sostiene – e devono essere considerati vittime, perché è questo che sono. Finora siamo stati vittime prima dell’aggressore e poi della giustizia di questo paese”.