Il Mar Mediterraneo è zona affollata, soprattutto di navi da guerra, soprattutto vicino le coste siriane. Ai russi che dall’autunno scorso stazionano di fronte Tartus si sono aggiunte due portaerei statunitensi. La Truman prima e la Eisenhower dopo, chiamata a sostituirla ed entrata nell’area operativa della Sesta Flotta, servono – dice il Commando Usa in Europa – «a sostenere gli interessi di sicurezza nazionale in Europa».

Più che in Europa, sembrerebbe che gli interessi da tutelare siano legati agli stravolgimenti mediorientali, al repentino cambio degli equilibri regionali. L’arrivo delle portaerei coincide infatti con gli addestramenti della Nato in corso tra Europa dell’Est e Turchia, che si sovrapporranno a quelli russi delle prossime settimane.

Era dal 2003, dall’invasione dell’Iraq, che non si registrava una presenza tanto consistente della marina di Washington nell’area. Di certo le centinaia di aerei da guerra che la Truman e la Eisenhower portano con sè proseguiranno nei raid anti-Isis su Siria e Iraq, ma non sono pochi quelli che vi leggono l’interesse a stuzzicare Mosca. Dopo le ripetute richieste russe di un coordinamento militare (in chiave anti-Isis, ma anche volto ad allentare le tensioni sull’Ucraina) e le risposte negative da parte Usa, il presidente Putin percorre altre vie e rafforza l’asse con Teheran: è dei giorni scorsi l’incontro nella Repubblica Islamica tra i ministri degli Esteri russo, iraniano e siriano.

La mossa Usa arriva in un momento di stallo del negoziato siriano, dopo la dichiarazione del segretario generale Onu, Ban Ki-moon, che annuncia di non voler prevedere nuove date per la conferenza di Ginevra: «Non vogliamo un dialogo fine a se stesso. Allo stesso tempo, voglio sottolineare l’urgenza della data di scadenza di agosto [per la formazione di un governo di transizione]. Entro quella data dobbiamo almeno cominciare un accordo serio. Senza un orizzonte politico, un’altra escalation è più che probabile».

Non solo probabile: è realtà. Il fuoco incrociato sia militare che di accuse tra governo e opposizioni scandisce la quotidianità, costellata dagli attentati con cui l’Isis ricorda di essere ancora ben presente nel paese. La Coalizione Nazionale siriana, principale opposizione della federazione Hnc, ha accusato ieri il governo di aver liberato 150 prigionieri solo per mandarli al fronte, ad Aleppo e Qamishli, per poi essere smentita dall’Onu: secondo l’inviato De Mistura si è trattato di un atto di buona volontà per il Ramadan. L’altra accusa è più pesante: Damasco, dicono, avrebbe bombardato gli aiuti umanitari inviati per la prima volta in 4 anni al sobborgo sotto assedio di Daraya, vicino la capitale.

Il governo smentisce ma a godere delle fratture interne è lo Stato Islamico. “Dimenticato” da molti attori internazionali della crisi, seppure sotto pressione dell’esercito governativo e dei combattenti kurdi, l’Isis colpisce: ieri per la terza volta in pochi mesi un duplice attacco ha colpito il sobborgo di Damasco che ospita il mausoleo sciita Sayyida Zeinab (nipote di Maometto e figlia di Ali, “capostipite” dello sciismo). Prima un kamikaze, poi un’autobomba: 20 morti, decine di feriti, auto e negozi in fiamme ed edifici danneggiati, subito rivendicati dallo Stato Islamico.

E se tutta la Siria resta un enorme campo di battaglia è a nord che potrebbero decidersi le sorti del conflitto. A stringere la morsa sull’Isis sono le Sdf, combattenti kurdi, arabi, assiri e turkmeni che proseguono nell’avanzata lungo il confine turco. L’obiettivo è Manbij, città a maggioranza araba a 17 km da al-Bab, roccaforte islamista a nord est di Aleppo. Anche Manbij è dal 2014 in mano all’Isis, ma potrebbe restarlo per poco: la ripresa da parte delle Sdf garantirebbe l’avvicinamento all’Eufrate, considerato dalla Turchia la linea invalicabile per i kurdi di Rojava.

Ieri le Sdf hanno circondato Manbij, tagliando le vie di rifornimento islamiste: se cadrà, il “califfato” perderà la porta di approvvigionamento di armi e uomini che attraversano la porosa frontiera turca. Si teme per i civili: in centinaia sono fuggiti, trovando rifugio in comunità controllate dai kurdi, ma in migliaia restano intrappolati a Manbij.