I Ministri degli esteri del «Gruppo normanno» (Russia, Francia, Germania e Ucraina) che si riuniscono oggi a Parigi dovranno, con ogni evidenza, constatare quanto ancora sia lontana la piena realizzazione degli accordi raggiunti a Minsk dieci giorni fa.

Il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert ha espresso ieri le preoccupazioni di Berlino per l’assenza nell’Ucraina orientale di un completo armistizio, chiamando Mosca «a influire al più presto sui separatisti».

E sempre ieri Kiev ha annunciato che non ritirerà le artiglierie dalla linea di contatto tra gli opposti schieramenti, come concordato a Minsk, adducendo la persistenza di colpi sparati dalle milizie. Invece, il vice presidente del Consiglio popolare di Lugansk Vladislav Dejnego, sottolineando che il regime del cessate il fuoco, nel complesso, sta reggendo, salvo isolati colpi di armi leggere nelle zone occupate dalla Guardia nazionale, ha dichiarato che le milizie di Lugansk stanno continuando l’allontanamento delle armi pesanti iniziato nei giorni scorsi e che, secondo i protocolli, dovrà concludersi nel giro di due settimane. Il vice comandante delle milizie di Donetsk, da parte sua, ha detto che «lo spostamento delle armi pesanti inizia il 24 febbraio e dovrà concludersi con l’allontanamento delle armi ucraine a 50 km».

Oltre al ritiro delle artiglierie, anche su altre questioni non tutto fila liscio. Da Donetsk, Andrej Purghin ha accusato Kiev di violazione degli accordi sullo scambio di prigionieri.
Durante l’ultimo scambio, sabato scorso, solamente 34 dei 52 prigionieri (contro 139 soldati di Kiev) erano effettivamente miliziani combattenti: gli altri erano o prigionieri politici o padri e madri di miliziani; c’era anche un giornalista ucraino accusato da Kiev di tradimento per aver fotografato Debaltsevo. Lo scambio completo di tutti i prigionieri dovrebbe essere completato tra il 4 e il 5 marzo prossimi.

E sempre ieri, mentre a Mosca era giornata semifestiva per il 97° anniversario dell’Armata rossa – ora la festa si chiama «Della difesa della patria» – a Kharkov e Mariupol si è impedita qualsiasi manifestazione, dichiarando che si tratta di una festa «antiucraina», anzi «russa» e «sovietica» e ricordando che il Presidente Poroshenko ha istituito la nuova festa del 14 ottobre, data di nascita dell’esercito collaborazionista Upa.

D’altronde, proprio a Kharkov, domenica scorsa due persone erano rimaste uccise dall’esplosione di una mina antiuomo fatta esplodere durante il passaggio del corteo organizzato a un anno da Euromajdan. Secondo il sito del cosiddetto «Partigiano di Kharkov», l’attentato sarebbe stato organizzato dal Ministero degli interni come pretesto per introdurre il regime antiterroristico (come nelle regioni di Donetsk e Lugansk) a Kharkov.

Si erano svolte invece senza incidenti sia la marcia a Kiev, alla presenza di una decina di capi di stato e di governo europei (i soliti baltici, oltre a Germania, Polonia, Ue, ecc) per l’anniversario di Majdan, sia il corteo di 35mila persone organizzato sabato scorso a Mosca dal movimento «Antimajdan», con gli slogan «Non dimenticheremo, non perdoneremo» e il fine dichiarato di non permettere in Russia il ripetersi di quanto avvenuto in Ucraina un anno fa.

Il tutto, mentre da Mosca, dove sono rifugiati, l’ex Presidente ucraino Viktor Janukovic dichiara di avere intenzione di tornare in patria e mettersi alla testa del movimento di protesta contro l’attuale leadership e l’ex premier Nikolaj Azarov si esprime per la formazione di un «governo in esilio».

Probabilmente, al momento, nient’altro che guerra di parole. Come il botta e risposta ieri tra Petro Poroshenko e il leader crimeano Sergej Aksenov. Il primo ha detto che «lo stato ucraino tornerà a controllare il territorio temporaneamente occupato» della Crimea. Il secondo, mentre ha ribattuto che «La Crimea è tornata alla patria, alla Russia e questo è per sempre», ha promesso l’istituzione di un tribunale militare in cui sarà chiamato a rispondere lo stesso Poroshenko.