Pornocrazia: è questo il termine che, in una statistica di combinazioni lessicali come quelle ora di moda, troveremmo più esclusivamente associato al nome di Liutprando di Cremona, storico latino del decimo secolo, di cui sono uscite in questi mesi l’opera omnia con traduzione e commento francese a cura di François Bougard (Liudprand de Crémone, Oeuvres, Cnrs Editions, pp. 650, euro 69,00) e l’Antapodosis, cronaca in prosa con intermezzi poetici sull’Europa fra fine IX e metà X secolo, brillantemente curata da Paolo Chiesa per la collana «Scrittori greci e latini» della Fondazione Valla (Mondadori, pp. 568, euro 30,00).
Pornocrazia significa «governo delle prostitute» e allude all’enorme influenza che donne di volubile cuore ma di ambizioni chiarissime avrebbero avuto su duchi, re e papi del X secolo: ad esempio la romana Marozia, amante di papa Sergio III, mandante dell’assassinio di Giovanni X (amante a sua volta della madre Teodora, anche lei «una puttana senza vergogna») e madre del di lui successore Giovanni XI, infine sospetta concubina di Leone VI. Oppure Ermengarda di Ivrea, la «ragione della cui potenza era (…) che intratteneva commercio carnale con tutti». Oppure Willa (qui tradotta «Guilla» per evitare barbarismi), moglie di Bosone di Toscana, che nell’episodio «più famoso dell’opera, il più famoso – scrive Chiesa – anche perché bassamente pornografico» nasconde nella sua cavità genitale una cintura d’oro gemmato per salvarla dal saccheggio del re Ugo (di Provenza, poi d’Italia dal 926), ma viene spogliata e frugata fino a che lo spuntare di un filo di porpora non la espone al disvelamento del sotterfugio e a una serie di battutacce sul nuovo tipo di ostetricia da parte del servo-detective, poi punito con una bastonata.
Liutprando mantiene su questa scena un atteggiamento di riserva morale, chiedendosi se fosse più criticabile la donna o il servo che non mostra rispetto del suo corpo e che, mentre tutti distolgono lo sguardo per pudore, non esita a indagarla directo obtutu, con un’occhiata diretta quasi più oscena della perquisizione che ne segue. In realtà, l’episodio, al di là della pruderie, ha una sua centralità nella comprensione di questi pirotecnici sei libri, scritti per «ripagare» Berengario e Willa seconda (figlia della malcapitata di cui sopra) dei torti inflitti a Liutprando, suo ex ambasciatore, ma che delle malefatte di Berengario non parlano se non per rapido cenno. La centralità della scena di Willa sta anzitutto nella tipologia sessuale del suo contenuto, che emerge come tratto ricorrente dei racconti di Liutprando: quando deve spiegare perché i ciechi vivano più a lungo ricorre alla favola ovidiana di Giove e Giunone che discutono se sia l’uomo o la donna a godere di più; quando il Tebaldo di Spoleto sconfigge i Greci li fa castrare tutti, salvo uno la cui moglie viene a supplicarlo di cavargli pure gli occhi ma risparmiargli i testicoli, per evitarle di perdere «il ristoro del suo corpo e la speranza di prole futura», suscitando insieme una fragorosa risata e la benevolenza di Tebaldo. Soprattutto, quella che si può considerare la vera conclusione dell’opera, ossia la fine del libro V (il VI è un’aggiunta posteriore, anche se autentica), racconta un’altra impresa dell’inesauribile Willa, che tradisce il marito Berengario con un cappellano, precettore delle due figlie. La tresca viene scoperta a causa dell’abbaiare di due cani, ma la marchesa previene le indagini accusando il chierico di frequentare le sue serve. Per punizione il prete viene castrato, ma secondo gli esecutori del castigo «la padrona faceva bene ad amare uno così, visto che portava le armi di Priapo».
Secondo Paolo Chiesa la storiella, che si avvale di richiami da Terenzio e Giovenale, rappresenterebbe «una conclusione spettacolare», segno dell’intenzione precisa di chiudere con un fatto emblematico. La cintura di Willa sarebbe dunque, sul piano della scelta tematica, il culmine di quello che Gustavo Vinay – a tutt’oggi (con Auerbach) l’interprete più acuto di questo scrittore – definiva nel 1979 «priapismo» di Liutprando, «in instabile equilibrio orchitico» fra patetismo e riso impaziente di oscenità.
Ma l’episodio della cintura è emblematico anche del diffuso registro grottesco, che non evita descrizioni dirette di materia delicata e privatissima, ma la trasforma in sketch da commedia antica, servendosi di frammenti classici ricomposti in un impasto che del tono sarcastico e divertito fa un’arma trionfale al servizio di quello che è stato chiamato lo «sperimentalismo» del latino ottoniano, vistoso nel plurilinguismo greco-latino di Liutprando ma attestato con tecniche diverse in molti autori di questo secolo «di ferro».
Pornocrazia e ossessione sessuale fanno dell’Antapodosis un palcoscenico di personaggi femminili che pongono un più serio problema interpretativo. C’è chi, come Levine, di questa scurrilità ha voluto suggerire una lettura bachtininana in cui il riso e in generale l’espressione oscena e servile sono rivelatori dal basso di un punto di vista abitualmente censurato.
C’è chi, come Cristina La Rocca, ne ha dato una lettura politica vedendo nelle donne e negli uomini che Liutprando disprezza come effeminati la polarizzazione del negativo, al punto che l’ordine politico neoimperiale, portato da Ottone I di Sassonia al cui servizio Liutprando trascorre la seconda parte della vita, viene contrapposto al caos tardo-carolingio caratterizzato da una instabilità femminile e anarchica nella gestione del potere. Altri, come Paolo Chiesa, rovesciano l’argomento sottolineando invece che in Liutprando la donna, anche se disinvolta, è sempre abile e intelligente, «una spanna più in su del suo interlocutore maschile», capace di dominare i maschi con cui si misura. E in quest’ottica il modello terenziano interviene a filtrare l’intrinseca misoginia dell’autore: certo è che Liutprando deforma personaggi femminili che altre fonti coeve presentano in atteggiamenti assai più casti.
Il Medioevo di Liutprando è il Medioevo che ama immaginare chi non conosce l’immensa varietà di quest’epoca: spregevolmente misogino, feudale, spietato, volgare, familista, inconcludente, ecclesiastico senza essere cristiano. Ma fino in fondo non si capisce se tutto questo è serio o ironico, convinzione o opportunismo, aggressività esibita o controllata, misoginia per principio o per paura. Liutprando, come ricorda Arnaldi nella magistrale premessa biografica, è diacono quando scrive l’Antapodosis ed è vescovo (nominato dal potere politico, come si usava al tempo) quando scrive le altre sue opere: il fantasmagorico resoconto dell’ambasceria alla corte di Bisanzio (la Legatio), un panegirico imperiale e un’omelia di recente individuazione, tutte tradotte e riccamente commentate nell’edizione francese. Ma raramente il Dio cristiano, che resta soprattutto un’istanza espressiva, diventa protagonista del suo teatro. Anzi, i monaci sono nominati una sola volta come gente persa dietro contemplazioni astruse, tanto che quando l’imperatore bizantino Romano Lecapeno è costretto in esilio in un monastero si sente isolato in un ambiente incomprensibile.
La storia di Liutprando è agitazione insensata di uomini illustri e mediocri, è – scrive Vinay – «proclività allo scarto, allo stravagante, al prepotente», è giornalistico e indiscreto – dice Auerbach – secondo la tendenza già radicata nella storiografia romana tardoimperiale, non più interessata a ricostruire i nessi causali degli avvenimenti ma affascinata dal gossip, dall’aneddoto pruriginoso e dai segreti di corte. Per questo, come Svetonio e i suoi continuatori, ma con maggiore respiro geopolitico, Liutprando è incapace di costruire un romanzo perché impedisce l’identificazione del lettore in un personaggio grazie al freddo cinismo che domina sovrano sulle vicende umane. Eros ed heros sono per Liutprando chiavi novellistiche, e il suo genio è nell’esserne burattinaio consapevole perché la mente impegnata in percorsi intellettuali, come scrive nel prologo, «si ristora col benefico riso di commedie o con piacevoli storie di guerrieri».
Sovrano del ludus, Liutprando esprime questa sua irrequietezza anche nel linguaggio, intriso di parole, frasi e discorsetti in greco che hanno rappresentato la croce (e la delizia) dei filologi, schierati su fronti opposti che hanno interpretato questo greco ora come cultura scritta ora come superficie orale, come elemento strutturale o verniciatura posticcia, con la conseguenza che, per attenersi al manoscritto più antico e parzialmente autografo, nel testo originale a stampa gli inserti greci vengono lasciati in forme sgrammaticate e incoerenti, il che non aiuta il compito dei redattori e dei lettori, meno agevole in questo che in altri volumi della Valla.
I riflessi delle posizioni filologiche diventano un puzzle intrigante anche per i traduttori e traduttologi: Bougard ammette nel testo d’autore le glosse latine che spiegano gli inserti greci e nella traduzione riporta prima il greco poi la traduzione francese della glossa latina, Chiesa non accetta nell’originale le glosse latine, non ritenendole destinate al testo, e nella traduzione italiana prima riproduce il greco poi aggiunge la sua traduzione italiana. Questo vivace ma faticoso mix bilingue, che apre squarci sulla storia altrimenti nebulosa del rapporto fra mondo occidentale e mondo bizantino, è dedicato, nel prologo, al vescovo Recemondo di Elvira (poi Granada), che per parte sua rappresentava la minoranza cristiana in uno spazio dominato dal califfato islamico di Spagna. Ancora oggi non è chiaro perché Recemondo avesse chiesto a Liutprando, incontrato allla corte ottoniana, di comporgli questo intreccio di avventure militari e sessuali, questo reportage – con intermezzi poetici e dialoghi teatrali – di un mondo in cui gli equilibri politici stavano ricollocandosi e dove donne e uomini, servi e guerrieri si agitavano scompostamente alla ricerca inutile e breve di una impossibile stabilità.